Ma è solo un eco nel vento. Nel vento che mi risponde. Venga la pace dal mare lontano…
E’ una freddissima mattina di novembre in Italia, mentre scrivo. Non ho nessuna intenzione di elencarvi i misfatti di Illustri Italiani che sono ancora nell’esercizio delle loro funzioni amministrative e politiche, né tanto meno di parlarvi di quei delinquenti scrocconi, anonimi evasori fiscali, che chiedono rimborsi e aiuti per i loro figli studenti, allo Stato che siamo noi, e hanno redditi da capogiro chissà formati come…e neanche vi parlo di quegli altri Italiani che usano il loro status di imprenditori agricoli ed intermediari, che si facevano pagare dagli extracomunitari, migliaia di euro, per attestare rapporti di lavoro inesistenti.
Vi voglio far conoscere, e meglio per chi li ricorda, i fratelli Colapinto e in particolare quanto accade a Domenico, a partire da quei primi giorni di ottobre, il 3 ottobre 2013, in cui faceva ancora caldo sulle coste di Lampedusa. Loro, i fratelli Domenico e Raffaele Colapinto, sono due pescatori lampedusani da 30 anni a Rimini, che col nipote Francesco hanno salvato una parte delle centinaia di naufraghi eritrei e somali, il cui barcone proveniente dalla Libia è affondato a mezzo miglio da Lampedusa e ne sono morti affogati 366.
I Colapinto, con la loro motopesca Angela C, nome della madre dei fratelli, hanno deciso di tornare “per un paio d’anni in Sicilia, dove il mare è più pescoso”.
Veniamo ai fatti di ottobre: “…sono le 7,30 di giovedì mattina. Vediamo una barca in lontananza che tira su dal mare delle persone. Ci avviciniamo a tutto gas. Centinaia uomini, donne e bambini in mare che urlano e alzano le braccia per farsi salvare. Ne issiamo a bordo una ventina con le nostre braccia e le funi, perché loro sono stremati. Due li tiriamo in barca già morti, due donne, ma gli uomini le tengono a galla rischiando di affogare anche loro. Quei poveretti erano stremati. Prima il viaggio per mare stipati come bestie, e poi erano in acqua da quasi tre ore, perché abbiamo saputo dopo che il naufragio è avvenuto alle 5. Noi gli tiravamo i salvagenti, le cime, li avevano a pochi centimetri ma non riuscivamo a prenderli con le mani. Abbiamo capito che dovevamo fare tutto noi. Ci siamo messi a tirarli su, ma ci scivolavano dalle mani perché erano tutti unti di gasolio, fuoriuscito dal loro barcone quando è affondato. Tutto intorno a noi c’era un mucchio di gente, molti bambini. Vedevamo le persone andare giù nel mare, annegare, come facevamo a salvarli tutti?…
Ho preso una donna ancora viva ma mi è scivolata dalle mani, in fondo al mare. Poi ne ho presa un’altra. Questa sono riuscito a imbragarla con una cima. L’ho portata a poppa del peschereccio e l’ho tirata su. Alzavano le braccia e andavano giù, come facevamo a salvarli tutti?”
A distanza di due mesi da quando Domenico Colapinto si era slogato la spalla per tirarli sulla sua motobarca e ne aveva tirati su 18 di naufraghi, aggiunge che non è riuscito ” a salvarne altri cento, altri duecento, uomini e donne, ragazzi come i miei figli che affogavano davanti a me, dannato, impotente, pure io sfinito, senza forze, come loro, ma io vivo, loro annegati.Rivedo le braccia unte di nafta che mi scivolano via, mentre quei cristiani spariscono fra le onde guardandomi, chiedendo…”. Alla psicoterapeuta che una volta alla settimana arriva da Palermo, Domenico ripete una storia che ormai lo tormenta e non riesce a scordare.La moglie Maria Rosa spiega che ” non è più lo stesso, di notte si alza, va in bagno, torna dolorante, prova a dormire, ma lo vedo sveglio fino a giorno».
E Domenico ha ripetuto al Corriere della Sera quanto ebbe a vivere quel dannato giorno: «Inforcai il cannocchiale, a prua, e vidi una marea di persone che si disperavano, già soccorsi da una barca di turisti, altri che galleggiavano fra le onde. Macchina a tutta forza, grido. Chiamo “Lampedusa Circomare” e mi dicono che le motovedette arrivano. Ma la lente del cannocchiale era un zoom sulla strage: tre vivi si reggevano su due morti, altri gridavano aggrappati a pezzi di legno, senza la barca che non c’era, calata a fondo con la stiva piena di donne e bambini… Poi, poi ci siamo messi a raccogliere i vivi e i morti. Con l’“Angela C” fai fatica, la fiancata è alta. Io passavo da poppa a prua, buttavo salvagente, ciambelle, funi, cime, ma tanti non avevano forza, non si muovevano, erano lì da tre ore, gelo e buio, a ingoiare acqua salata, assiderati. Senti gridare, ne salvi uno e l’altro non lo vedi più. Sei tu che decidi in quel momento di acchiapparne uno e di lasciare morire un altro. Come essere Dio, per un attimo.
C’è una donna, gridava mio nipote Francesco da una fiancata. Vai. Ma come vado se c’è uno qui con le braccia tese. Posso lasciarlo affogare? E quella donna muore. Si, ho salvato Kibret e Semhar, ma oltre ai 18 vivi siamo tornati al porto con due donne morte e io ho chiuso a loro gli occhi, belle, lunghe, pantaloni di tuta, camicie stracciate. Come le loro vite. Che mi tornano davanti ogni notte». Qualcuno dovrebbe dire al pescatore Domenico Colapinto che non è il mare che deve odiare. Doriana Goracci
E in mezzo al mare c’è un punto lontano Così lontano dalle case e dal porto Dove la voce delle cose più care E’ soltanto un ricordo Ma da quel punto in poi Non si distingue più La linea d’ombra confonde Ricordi e persone nel vento
Avemmo padri avemmo madri Fratelli amici e conoscenti Ed imparammo a dare un nome nuovo Ai nostri sentimenti E così un giorno a camminare Sopra la terra sotto al sole avaro Per un amore che sembrava dolce E si è scoperto amaro.
Ma è solo un eco nel vento. Nel vento che mi risponde. Venga la pace dal mare lontano…
Doriana Goracci
Reset Italia