Messer Arrigo della Letta e il Monachorum Cenobium Spinetense
Messer Arrigo della Letta e il Monachorum Cenobium Spinetense [“Spogliatoio”]
Dovete adunque sapere che ne’ tempi passati furono nelle nostre città assai belle e laudevoli usanze, tra le quali v’era una cotale, che si radunavano insieme i gentili uomini di governo e facevano brigate festose, badando di mettervi tali che sostenere potessero acconciamente le spese. Tra le quali brigate ve n’era una, di messer Arrigo della Letta, nella quale il messere s’era ingegnato di condurre i migliori loici che avesse il mondo, savi tutti e di sangue nobile e bella forma e leggiadra onestà. Li quali radunati un dì messer Arrigo, così cominciò egli a parlare: “Signori miei cari, io giudicherei ottimamente fatto che noi di questa città di Roma uscissimo e in contado ce ne andassimo a stare, e quindi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcun atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altrimenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere; e èvvi, oltre a questo, l’aere assai più fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la quantità maggiore, e minore il numero delle noie. E per ciò, quando vi paia, oggi in questo luogo prendendo quella allegrezza e festa che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare”.
I nobili della brigata, udito messer Arrigo, non solamente il suo consiglio lodarono, ma desiderosi di seguitarlo, con consentimento concorde in su lo schiarir del giorno, usciti dalla città, si misero per via e pervennero al luogo da loro primieramente ordinato.
Era il detto luogo, nomato Abbazia di Spineto, sopra una piccola montagnetta, in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, con pratelli da torno e con giardini meravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini: e ogni cosa la brigata trovò con suo non poco piacere.
E postosi a sedere, disse messer Arrigo, il quale oltre a ogni altro era piacevole giovane e pieno di motti: “Compagni, il vostro senno più che il nostro avvedimento ci ha qui guidati; io non so quello che de’ vostri pensieri voi intendete fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me ne uscii fuori. E perciò o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete, o voi mi licenziate che io per li miei pensieri mi ritorni nella città tribolata”.
A cui i nobili, lieti, risposero. “Messer Arrigo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatti fuggire. Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io stimo che di necessità sia convenire tra noi uno principale, il quale noi onoriamo e ubbidiamo come maggiore, che abbia ogni cura nel disporci a lietamente vivere”.
Queste parole sommamente piacquero, e un di quelli, preso uno alloro, di quello ne fece una onorevole ghirlanda: la quale, messa sopra la testa di messer Arrigo, fu manifesto segno della sua real signoria. Messer della Letta, lieto drizzatosi in pie’ disse: “Qui sono i giardini, qui sono i pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo piacer sollazzando si vada; e come l’ora terza suona, ciascun qui sia, acciò che per lo fresco si mangi.
E poi che questi ordini da tutti commendati furono, i nobili insieme con le belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per un giardino, belle ghirlande di varie fronde facendosi e amorosamente cantando. E poi che a lungo si fur dilettati, al palagio tornati e entrati in una sala terrena, quivi le tavole trovarono con tovaglie bianchissime e con bicchieri che d’argento parevano, e ogni cosa di fiori di ginestra coperta. Le vivande delicatamente fatte vennero e finissimi vini fur presti. Dalle quali cose, per ciò che belle e ordinate erano, rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono.
E levate le tavole, comandò messer Arrigo che gli strumenti venissero, e preso un liuto e una viuola, cominciarono soavemente una danza a suonare; e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. E in questa maniera stettero tanto finchè parve tempo a messer Arrigo d’andare a dormire: perciò che, data a tutti licenzia, alle lor camere se n’andarono, le quali co’ letti ben fatti e così di fiori piene come la sala trovarono.
Non era di molto sonata l’ora nona, che messer Arrigo levatosi, tutti gli altri fece levare affermando esser nocivo il troppo dormire il giorno; e così se n’andarono in un pratello e quivi, sentendo un soave venticello venire, sì come volle Arrigo, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere, a’ quali egli così parlò: “ Nobili compagni, noi come voi sapete, cessando le malinconie e i dolori e le angosce, le quali per la nostra Italia continuamente si veggono, poi che questo pestilenzioso tempo incominciò, uscimmo di Roma; il che secondo il mio giudizio noi onestamente abbiam fatto, per ciò che, quantunque di continuo mangiato e bevuto e sonato e cantato (cose tali da incitare le deboli menti a cose meno oneste), nessun atto, nessuna parola, nessuna cosa ho riconosciuto in ciò da biasimare: continua onestà, continua concordia, continua fraternal dimestichezza mi ci è paruta vedere e sentire. E per ciò, perché alcuno la nostra troppo lunga dimora biasimar non possa, giudicherei che convenevole cosa è ormai il tornarci là onde ci partimmo”.
E così di fare deliberarono come egli aveva ragionato, e le donne e gli altri nobili levatisi, chi a un diletto chi a un altro si diedero, e dopo a cantare e a sonare e a carolare cominciarono. Appresso a ciò, come a Messer Arrigo piacque, dietro alla guida del cortese capo verso Roma si ritornarono.
Sara Di Giuseppe
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* Libero saccheggio da G.Boccaccio, Decameron, I°, Introduzione; X, Conclusione