Finmeccanica, le sue armi e le sue debolezze…
In principio era il gruppo Iri. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1948 viene creata la finanziaria Finmeccanica, che diventa una delle sub-holding di un conglomerato sempre più articolato. Essa deve concentrarsi sul settore meccanico e viene comunque utilizzata dalla capogruppo come un deposito di rottami, una struttura nella quale cioè collocare delle aziende che erano a suo tempo fortemente cresciute con la guerra e che, con lo scoppio della pace, non avevano più un mercato; trovano posto all’interno della compagine anche altre imprese in difficoltà, con produzioni più pacifiche.
Passano decenni in continue opere di ristrutturazione, di chiusura di alcune aziende, di acquisizione o cessione di altre, con l’assillo di una situazione finanziaria spesso difficile. Il gruppo è alla costante ricerca di un assetto che riesca a stabilizzare le cose e a fargli ottenere risultati di mercato, economici e finanziari in qualche modo tranquillizzanti.
Un passaggio importante è la parziale privatizzazione. Durante l’ondata di entusiasmo per la scoperta del libero mercato che si manifesta anche da noi verso la fine degli anni ottanta-primi anni novanta – a sinistra ancora più che a destra – Finmeccanica viene parzialmente privatizzata nel 1993, con lo stato che mantiene comunque il 30% circa del capitale; contemporaneamente le sue azioni vengono quotate in borsa.
Arriva il 2001, sotto la gestione Guarguaglini, e si trova una soluzione produttiva che sembra efficace: concentrarsi sul business delle armi, approfittando del fatto che l’organizzazione, a partire dallo stesso capo, è piena di generali, ammiragli e colonnelli in qualche modo esperti del mestiere e che in casa sono disponibili delle tecnologie militari di un certo interesse. La trovata per un po’ sembra funzionare e il gruppo riesce apparentemente a trovare per qualche anno un suo equilibrio di mercato, organizzativo ed economico-finanziario. Un equilibrio non molto positivo socialmente e molto precario strategicamente, come testimoniano le vicende degli ultimi due anni.
Così, mentre nel periodo 2002-2003 il settore civile rappresentava circa un terzo del fatturato complessivo, già due anni dopo si era scesi a meno di un quarto. Con la scelta bellica la società diventa la più grande impresa manifatturiera nazionale dopo la Fiat e il livello delle sue spese per la ricerca e sviluppo supera quello del gruppo torinese. Essa è inoltre la prima realtà italiana operante nel settore delle tecnologie avanzate.
Segue a notevole distanza la STMicroelectronics, il cui controllo azionario è però ceduto nel 1987 per metà ai francesi, con un accordo complesso. Incidentalmente, bisogna a questo proposito ricordare che la proprietà del pacchetto azionario italiano di STMicroelectronics, la realtà industriale più rilevante presente in Europa nell’elettronica, era passato nel 1989 per le mani della stessa Finmeccanica, che se n’è però sbarazzata in due tranche, nel 2004 e nel 2009, proprio per avere le risorse necessarie per perseguire gli sforzi bellici. Una scelta molto miope.
La società opera oggi nei settori degli elicotteri, dell’elettronica per la difesa, dei velivoli civili e militari – questi i suoi business prioritari –, oltre che nel campo delle infrastrutture spaziali e dei sistemi di difesa. Un posto marginale rivestono i comparti del trasporto e dell’energia. Questi due ultimi business mal si conciliano con quello militare e il gruppo dirigente prima li trascura e poi, negli ultimi tempi, pensa di sbarazzarsene, anche se si tratta di due attività che potrebbero essere molto utili per una riconversione della nostra economia e della stessa Finmeccanica.
L’azienda procede con una forte spinta verso l’internazionalizzazione; essa diventa presto il secondo gruppo militare in Gran Bretagna, in particolare attraverso operazioni di acquisizione effettuate fino al 2005, mentre anche negli Stati Uniti, con l’acquisto nel 2008 della Drs Technologies, assume un ruolo di un certo rilievo. Peraltro la società Usa verrà pagata troppo, come l’Antonveneta da parte di Monte Paschi, e i risultati si manifesteranno come molto poco brillanti in ambedue i casi.
Finmeccanica fa la scelta “anglosassone” e concentra i suoi sforzi di collaborazione nel settore dell’aereonautica civile con la statunitense Boeing, rifiutando l’opzione europea. Così oggi l’Italia è l’unico paese del continente che non collabora al progetto EADS-Airbus, mentre anche l’Alitalia, fino ad un certo punto, ha acquistato soltanto aerei statunitensi.
Vengono raggiunti in ogni caso ambiziosi traguardi in termini di mercato, economici e finanziari. Così, mentre ancora nel 2001 il fatturato di gruppo era pari a 6,8 miliardi di euro, esso diventa di 12,5 miliardi nel 2006, cresce poi a 18,2 nel 2009 e a 18,7 nel 2010, moltiplicandosi per tre nel corso di otto anni. Il gruppo, secondo le statistiche internazionali al riguardo, diventa presto il settimo o l’ottavo del mondo nel suo settore in termini di dimensioni. L’azienda non registrerà mai grandi profitti, ma comunque i risultati economici migliorano anch’essi e da perdite quasi strutturali si passa a un miliardo di euro circa di utili nel 2006, mentre nel 2009 siamo ancora a 718 milioni di utili.
Nel 2010 la macchina comincia a incepparsi e alcuni nodi vengono al pettine. Le novità negative sono due e si manifestano in maniera netta a partire dal 2011, vero annus horribilis per il gruppo.
La prima novità riguarda un peggioramento netto e improvviso del mercato di riferimento. Proprio nel momento in cui l’azienda avrebbe potuto raccogliere i risultati dei grandi sforzi compiuti in termini di investimenti e di organizzazione, scoppia la crisi del 2007-2008. I principali paesi occidentali, preoccupati dall’entità dei debiti fatti anche per salvare le banche, cominciano a ridimensionare i loro budget in generale e quelli militari in specifico; persino gli Stati Uniti intervengono su tali spese; l’azienda non ha una strategia di ricambio, essendosi tagliata quasi tutti i ponti alle sue spalle.
Una via di uscita da tale situazione poteva apparire quella di concentrare gli sforzi commerciali verso i paesi emergenti, paesi nei quali, a partire dalla Cina e dall’India, i bilanci militari sono da parecchio tempo in forte crescita, ma il risultato maggiore appare, almeno per il momento, quello di una catena di scandali per il gruppo, scandali che riguardano in un modo o nell’altro, l’India, il Brasile, Panama, la Libia.
La seconda novità è che, contemporaneamente, si registrano gravi problemi interni al gruppo. Si scopre che probabilmente l’azienda non solo paga tangenti in diversi paesi per ottenere commesse, ma che essa distribuisce generosamente prebende agli stessi gruppi dirigenti e a vari faccendieri, nonché ai partiti politici, in particolare ad alcuni di essi.
Certo, il settore appare strutturalmente caratterizzato da alti livelli di corruzione e di reati finanziari, ma la nostra azienda sembra averci messo molto del suo. In ogni caso, il gruppo dirigente viene progressivamente decimato dagli avvenimenti, che sembrano toccare anche parenti ed amici dei capi, mentre molti magistrati, in Italia e all’estero, sono ora al lavoro per cercare di fare un po’ di chiarezza. Come al solito, le acque si smuovono da noi soltanto per l’intervento della magistratura.
I risultati economici cambiano rapidamente di segno e anche il valore di borsa dell’impresa precipita. Il fatturato per il 2011 diminuisce e si registra una perdita economica di 2,3 miliardi di euro, mentre il debito, vera maledizione del gruppo nel corso dei decenni, comincia ad aumentare e il portafoglio ordini si assottiglia ancora più rapidamente del fatturato. Il valore del titolo in borsa raggiunge in questi giorni forse poco più del 10% di quello di qualche anno fa, mentre comincia a calare anche l’occupazione e si preannunciano dolorose ristrutturazioni. I dati per il 2012 non sono ancora disponibili ma si suppone che non riusciranno a stabilizzare la situazione; non si osa pensare quale essa potrà essere nel 2013.
In questo percorso, il gruppo Finmeccanica non poteva non farsi complice, attraverso le sue controllate di settore, della famigerata vicenda degli F-35, nella quale l’Italia ha molto da perdere finanziariamente e molto poco da guadagnare in investimenti e posti di lavoro.
Il caso dello scandalo Finmeccanica, risvegliatosi soltanto poche ore dopo quello di Eni-Saipem, che fa peraltro seguito a quelli di Monte Paschi, Banca Popolare di Milano, Fonsai-Ligresti, Ilva, per citarne soltanto alcuni tra i più importanti, indica che alla base delle difficoltà del nostro sistema di grandi imprese non c’è soltanto una crisi di strategie, di risorse finanziarie, di politica industriale mancata da parte dei governi, di scarso sostegno da parte del sistema bancario, ma anche un grande problema di tenuta morale. Del resto, tout se tient. Per questo la crisi appare veramente grave e uscirne estremamente difficile.
Si apre ora una partita complicata. Per quanto riguarda Finmeccanica bisogna ricostruire un gruppo dirigente adeguato al compito e che punti nel tempo a una riconversione in senso civile delle sue produzioni, concentrando ad esempio i suoi sforzi verso il settore dell’aereonautica civile e delle attività spaziali, e forse anche ripristinando l’interesse verso i trascurati settori dell’energia e dei trasporti, in alcuni comparti dei quali le prospettive di mercato sembrano interessanti.
Un altro grave problema per il nuovo governo.
Vincenzo Comito
Fonte: Sbilanciamoci
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Vincenzo Comito è autore dell’unico volume di analisi critica di Finmeccanica: Lo scandalo Finmeccanica, edizioni dell’asino
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