Franco Pinerolo: “Economisti contro le politiche di austerity!”
ALLE ELEZIONI SCONFIGGERE IL PARTITO DELL’AUSTERITÀ INIQUA E CONTROPRODUCENTE.
Evidenze empiriche dimostrano qui, qui, qui e altrove che tagliare la spesa ha un effetto distruttivo sul PIL e tagliare le tasse non basta a far riprendere l’economia (qui); politiche di austerity, aggravando la depressione della domanda interna, hanno provocato crisi di lavoro; si dimostra qui, qui, qui e altrove che la Germania ha pesanti responsabilità in questa crisi; il Fondo Monetario Internazionale (FMI) riconosce per la seconda volta qui che ha sottostimato sistematicamente l’impatto recessivo dell’austerità su PIL e disoccupazione; ridurre i salari (come si documenta qui) già bassi non serve ad aumentare la produttività, occorrono investimenti innovativi da parte dello Stato; il World Economic Outlook dell’Ocse , Holland e Portes qui, Ball, Leigh, Loungani, Guajardo, Pescatori, Coenen, Erceg, Roberto Perotti qui e il Roosevelt Institute qui, contro le politiche di austerità in una fase di recessione; il debito pubblico non provoca qui una riduzione della crescita economica (qui); anche ricercatori della BCE dimostrano qui che l’austerità fa male ai conti pubblici; invece studi confermano qui che investimenti pubblici ed espansioni fiscali funzionano .
Scegliere il partito della crescita economica e occupazionale fondata sulla spesa pubblica e sullo stimolo ai consumi. Ecco dove prendere le risorse.
Tanti prendono un granchio sul fiscal compact
INTRODUZIONE
In questa campagna elettorale assistiamo a una strana trasformazione: quelli che fino a ieri avevano proposto provvedimenti di stupido rigore, ora sembrano improvvisamente dimenticarsene e li rinnegano, inventandosi le promesse più fantasiose pur di ottenere un voto. Tutta questa nebbia propagandistica non deve nasconderci il fatto che, in realtà, c’è un Partito, trasversale a quasi tutto l’arco delle forze politiche italiane, che se dovesse vincere le elezioni rappresenterebbe un grave danno per il nostro Paese. È il Partito dell’”austerità espansiva” o dei “sacrifici come premessa della crescita”.
La teoria dei 2 stadi – prima i sacrifici poi la crescita- dimentica (prof. De Cecco) che sono gli investimenti a determinare i risparmi, come si è visto in Italia nell’immediato dopoguerra. Non è vero infatti, come sostiene l’Agenda Monti, che la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane, ma semmai è il contrario (prof. J. Stiglitz Premio Nobel economia): conti pubblici sani si possono costruire solo sulla crescita. L’Ufficio Studi del Sole 24 ore qui dimostra infatti che l’effetto dell’Agenda Monti è stato il peggioramento dei conti pubblici. Le manovre di tagli alla spesa pubblica ed aumento dell’imposizione fiscale hanno cercato di abbattere il carico del debito pubblico, ottenendo in tutta Europa, Italia compresa, l’effetto opposto, come ha ammesso pure il Fondo Monetario Internazionale (FMI) qui. Avevano visto giusto i numerosi economisti, emeriti accademici italiani e internazionali, che nel giugno 2010 sottoscrissero qui il documento contro le politiche di austerità, pubblicato anche dal “Sole 24 Ore”, in cui venivano correttamente descritti gli effetti perversi delle politiche di rigore ed era avanzato l’auspicio che l’Italia e l’Europa concertassero una svolta espansiva di politica economica, prima che l’Eurozona fosse a rischio.
BATTERE L’AUSTERITÀ INIQUA E DANNOSA
1) EVIDENZE EMPIRICHE DIMOSTRANO CHE NON SI PUÒ CRESCERE TAGLIANDO LA SPESA PUBBLICA. È chiaro che sperperi e distrazione di denaro pubblico vanno contrastati, ma non possono essere presi a pretesto, come si fa ogni volta, per tagli invece lineari alla sanità, all’istruzione, all’assistenza e alle spese sociali, riducendo domanda pubblica che crea lavoro e servizi. Per l’Agenda Monti e per Berlusconi, invece, il taglio della spesa pubblica sarebbe l’unica strada per ridurre le tasse e i tassi d’interesse sul debito. Ma non è così:
a) Il moltiplicatore della spesa pubblica – cioè quanto una diminuzione (o un aumento) di questa genera di diminuzione (o aumento) del PIL – è più ampio del moltiplicatore delle tasse: Christina Romer, già consigliere economico di Obama, su questo tema ad ottobre ha scritto sul New York Times le seguenti cose: “… Un mix diverso di maggiori spese e minori tasse sarebbe stato desiderabile. Le minori tasse funzionano molto peggio della maggiore spesa pubblica nel generare ripresa”. I dati della Romer sono quelli che lei stessa ha usato per la manovra per il Presidente Obama nel 2009 , che stima come moltiplicatore 1,5 per la (maggiore e minore) spesa e 1 per la (minore o maggiore) tassazione.
b) Ma c’è di più: “La Stampa” ha pubblicato sabato 25 agosto 2012 questo working paper del FMI scritto da Nicoletta Batini, Giovanni Callegari e Giovanni Melina, per cui un taglio della spessa pubblica equivalente all’1% del PIL provoca una caduta del PIL dall’1,4% all’1,8%, mentre l’espansione della spesa pubblica determina un aumento del reddito che è un multiplo di sè stessa. Questo rende possibile ottenere un eccesso del gettito fiscale sulla spesa, come richiesto anche dal Fiscal Compact. Batini, Callegari e Melina mostrano anche che tagliare le tasse non basta a far riprendere l’economia perché buona parte del reddito disponibile aggiuntivo verrà risparmiata, o utilizzata per ripagare i debiti invece che essere spesa. E’ necessario allora che sia lo Stato a spendere, in assenza di fiducia degli investitori e delle famiglie.
c) Anche Lawrence Summers, già ministro del Tesoro e consigliere economico della Casa Bianca, sul Financial Times del 30 aprile 2012 ricorda che il taglio della spesa pubblica ha un effetto distruttivo sul Pil pari a una volta e mezzo, cioè a ogni euro in meno di spesa pubblica corrisponde un euro e mezzo di contrazione del Pil, perchè la spesa pubblica rappresenta domanda per il sistema (ad esempio l’assunzione di nuovi docenti o personale medico genera un incremento nel reddito nazionale e quindi favorirà i consumi), e perciò ogni sua riduzione si ripercuote negativamente sull’intera economia (prof. G. Zezza). È stato calcolato che a seguito dei tagli lineari di Tremontiana memoria della spending review di Monti avremo un’ ulteriore riduzione del PIL di circa altri 40 miliardi, rendendo ancora più squilibrato il nostro già pesante rapporto tra un Debito che continua a salire e un PIL che invece continua a contrarsi. La spesa pubblica finora è già strutturalmente diminuita di 103 miliardi di euro in tre anni (a cui si aggiungono oltre 50 miliardi da qui al 2014 se si considera l’effetto cumulato anche della Legge di Stabilità 2012 e del Salva-Italia). Siccome le uniche componenti a sostegno della domanda interna e della crescita potenziale sono rappresentate proprio dalla spesa pubblica corrente e dagli investimenti, peraltro già ridotti pesantemente nell’ultimo quinquennio, se viene tagliata ulteriormente la spesa pubblica, addio crescita!
d) Anche il CBO, l’organismo indipendente del Congresso americano dedicato alle politiche di bilancio, ha constatato che la spesa pubblica ha un effetto moltiplicativo superiore ad uno, vale a dire che ogni euro o dollaro speso genera una crescita del reddito nettamente superiore, anche del 50%, e che per questa via può crescere la domanda e l’occupazione.
e) Alesina & Giavazzi scrivono che, secondo loro, “la crescita non ci sarà finché non si riduce la spesa pubblica”, e se così non sarà “la pressione fiscale rimarrà elevatissima”. Anche non considerando alcun moltiplicatore, una riduzione di 10 miliardi di euro di spesa pubblica accompagnata da una riduzione di entrate di pari importo – supponendo che tale sgravio di tasse si risolva tutto in maggior domanda e crescita dei redditi – avrà un effetto nullo sul reddito complessivo (-10 miliardi in stipendi pubblici o prestazioni sociali o acquisti di beni e servizi alle imprese compensati da +10 miliardi di spesa privata per minor imposte fa zero). Quindi non cambia il deficit pubblico, non riduce il debito e non stimola la crescita economica. E se si tenesse conto anche del moltiplicatore della spesa pubblica l’effetto sarebbe negativo, sia sulla domanda che sul rapporto debito/Pil.
f) La spesa pubblica italiana, al netto degli interessi, è sempre risultata più bassa di quella media dell’eurozona, e, quel che più conta, è inferiore alle entrate pubbliche italiane dal 1992 ad oggi, il che significa che mediamente abbiamo conseguito ogni anno un avanzo primario di 31 miliardi di euro, ovvero che in questi 21 anni le politiche di bilancio hanno sottratto dalle tasche dei cittadini 650 miliardi in più di quanto sia ritornato in termini di servizi e investimenti pubblici. Hanno tagliato e fatto pagare di tutto agli italiani, tranne che ridurre le pensioni d’oro, le spese militari. i costi della classe politica, le grandi opere inutili ecc.
g) E poi basta guardare all’esperienza britannica: in termini reali il governo Cameron ha tagliato l’1,58% della spesa pubblica rispetto al periodo 2010-2011, con il risultato di aver mandato il Regno Unito (qui) di nuovo in recessione.
Sostenere che la spesa pubblica è improduttiva è dunque palesemente falso. La spesa di una persona è il reddito di un’altra persona: tagliare la spesa nel tentativo di ripagare i debiti contratti (prof. Krugman) si è dimostrato ora come nel passato (1930) collettivamente autolesionista, perché il risultato è stato una depressione economica che ha peggiorato il debito pubblico.
2) POLITICHE DI AUSTERITÀ HANNO PROVOCATO CRISI DI LAVORO. Il lavoro è il motore del paese, ma in questa campagna elettorale si sente un gran parlare di liste, di candidati e di alleanze, molto meno invece di impegni precisi con chi sta vivendo una situazione di straordinaria difficoltà.
a) Occupazione, crescita, e produttività dipendono fondamentalmente dalla domanda aggregata di beni e servizi (consumi delle famiglie, investimenti del settore privato, esportazioni e spesa pubblica). che non andava ridotta dalle politiche di austerity, ma sostenuta dall’impegno pubblico, perchè così si e’ usciti dalle grandi crisi, a cominciare dalla Grande Depressione fra le 2 guerre, nel 1934, o dopo la crisi del 1929 col New Deal di Roossevelt, e poi col piano Marshall, nel dopoguerra (1947).
b) Si cerca ignobilmente di rilanciare la competitività attraverso la disoccupazione, attuata mediante politiche di rigore che, riducendo la domanda di beni e servizi scoraggiano gli investimenti e quindi l’occupazione; controriforme come quella delle pensioni, allungando l’età pensionabile, hanno tolto il posto di lavoro a milioni di giovani; le ultime “riforme” del mercato del lavoro si sono fondate sul lavoro usa-e-getta, mentre quella dell’art. 18 ha permesso di licenziare anche senza giusta causa. Quando c’è molta domanda di lavoro, in tempi di crisi, i lavoratori sono costretti alla moderazione salariale per la legge della domanda e dell’offerta; con la perdita di valore di acquisto dei salari rispetto all’inflazione, il tentativo è quello di migliorare la competitività: è ciò che ha praticato finora scorrettamente la Germania, infischiandosene dello spirito cooperativo che imponevano i Trattati europei. Ma questa ricetta praticata dai Paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) è sbagliata, perché la risposta tedesca non si farebbe attendere, con ulteriori ribassi competitivi dei salari e quindi dell’inflazione, come già sperimentato nel recente passato. E così l’eurozona si avviterebbe in una spirale recessiva senza uscita. Inoltre un modello come quello tedesco basato sul surplus di esportazioni si può applicare in un solo Paese, ma ovviamente non può funzionare per l’intera Europa perchè non vi sarebbe più una fonte di domanda interna alla zona Euro (chi importerebbe?), in quanto le esportazioni dell’uno sono le importazioni dell’altro (proff. Eichengreen, 2012; Protopapadakis, 2012).
c) In Italia ora c’è una drammatica crisi di liquidità, perché le banche ormai prestano sempre meno soldi a imprese e famiglie, e il tasso d’interesse che le aziende italiane si trovano a dover sostenere oggi è decisamente più alto di quello richiesto alle aziende tedesche. Quasi 50 miliardi in meno sono stati erogati dalle banche qui fra il novembre 2011 a novembre 2012. In assenza di vincoli da parte della Banca Centrale Europea (Bce) e di adeguati controlli di Bankitalia, le banche italiane hanno utilizzato per l’acquisto speculativo dei titoli pubblici, e per manovre di profitto sui tassi (raddoppiando il differenziale sui mutui) i 274 mld di euro di prestiti triennali ottenuti a dicembre 2011 dalla BCE al basso tasso dell’1%.
d) Cos’hanno fatto in questi anni Berlusconi e Monti? È mancata in Italia una politica industriale per assicurare un futuro di innovazione all’industria e ai servizi mediante un piano adeguato di investimenti in ricerca e tecnologia; i costi energetici sono troppo alti ed è mancata una politica energetica che orientasse le scelte pubbliche e private su che cosa e come produrre; la complessità normativa continua a causare ritardi, fa lievitare i costi dell’attività imprenditoriale e scoraggia gli investimenti esteri; il nostro sistema giudiziario è lento; c’è una cattiva distribuzione della ricchezza, le infrastrutture sono arretrate e la criminalità organizzata è oltremodo diffusa in certe aree del nostro Paese scoraggiando gli investimenti, mentre la corruzione (l’Italia è al 72esimo posto su 174 Paesi nella classifica di Transparency International), mina la fiducia dei mercati, riduce gli impieghi di denaro, fa perdere competitività e condanna le imprese grandi e medie del nostro Paese a perdere il 25% del loro tasso di crescita, che sale al 40% per quelle più piccole. Berlusconi e Monti dovrebbero passare il resto della propria vita a pronunciare il Kyrie eleison.
3) ASIMMETRIE EUROPEE. IL GOVERNO TEDESCO HA PESANTI RESPONSABILITÀ IN QUESTA CRISI. Ha fatto peggiorare dal 2000 i debiti esteri e gli squilibri commerciali dei Paesi PIIGS qui, usando uno “standard di competizione” in contrasto con lo spirito cooperativo delle regole dell’Unione. Questo ha fatto impennare dopo il 2008 i debiti pubblici dei Paesi PIIGS, tutti con conti in ordine o in avanzo primario – come l’Italia – alla vigilia della crisi, come dicono i numeri qui, quindi il governo tedesco li ha costretti pesanti manovre di sangue, sudore e lacrime addossando le colpe ai loro debiti (manovre che li hanno invece portati in recessione facendo anche lievitare i debiti pubblici). Ma gli spread sono aumentati nei Paesi periferici solo nella primavera del 2011, non prima, quindi l’indisciplina fiscale pregressa non ne è la causa. La crisi in Europa esplode quando le banche tedesche, scottate dai subprime, devono rientrare dei loro crediti verso i Paesi periferici. La Germania assume allora un atteggiamento di rigidità, ed esplicita la sua assoluta contrarietà a salvataggi dei Paesi in difficoltà da parte della BCE: questo ha aperto lo scenario di una possibile insolvenza non solo della Grecia, (posta sotto controllo esterno della Troika), ma anche degli altri Paesi periferici. Inizia allora ad impennarsi lo spread, c’è una vendita massiccia dei titoli dei Paesi Piigs e una fuga di capitali verso la Germania, considerata più sicura. La causa dell’impennarsi degli spread è dunque il ruolo della BCE, che, diversamente dalle Banche Centrali di tutto il mondo, ha enormi freni normativi e politici alla monetizzazione dei debiti pubblici non garantendo liquidità per rimborsare i titoli del debito alla scadenza.
Qual era l’interesse tedesco all’austerity? L’austerità abbassa la redditività delle imprese dei Paesi Piigs che diventano oggetto di acquisizioni a buon mercato da parte della Germania (es. l’acquisizione di Ducati da parte di Audi-Volkswagen). I Paesi Piigs, inoltre, si vedono costretti a far fronte ai debiti anche vendendo a prezzi di sconto, oltre a partecipazioni azionarie in aziende strategiche e banche, persino immobili, isole e beni artistici e demaniali. E poi la fuga verso i titoli di Stato tedeschi ne ha abbassato gli interessi di oltre il 2%, con un risparmio per lo Stato tedesco di quasi un punto di Pil (0, 9%); e inoltre ora la Germania ottiene denaro in prestito a basso prezzo, finanziando a tasso zero il suo surplus commerciale e il suo debito, mentre la Spagna paga il 6% di interessi, l’Italia il 4,5%.
Dunque all’origine della crisi dei bilanci pubblici europei, esplosa nel 2008, non ci sono i debiti pubblici (qui) ma il debito estero e gli squilibri esterni (qui) nella bilancia dei pagamenti (proff. Krugman qui, De Grauwe qui, Cesaratto, Brancaccio, Cooper Harvard University, Bagnai, Levriero, Realfonzo, Presbitero qui, Bibow, Stiglitz, Alessandrini, Fratianni, Hallett, Dornbush, Feldstein, De Nardis, Layard, Manasse e Roubini qui, Martin Wolf qui, Strauss-Kahn, 400 economisti dell’European Economists for an Alternative Economic Policy in Europe, Stirati, Munchau, Soros et al.). L’interpretazione della crisi europea come crisi di bilancia dei pagamenti è inoltre dimostrata dall’elevato volume di prestiti bancari erogati dai Paesi in surplus ai Paesi in deficit prima del dispiegarsi della crisi, dalla successiva interruzione di questi flussi finanziari e, quindi, dagli squilibri crescenti del sistema Target 2. La Germania è in sistematico surplus di esportazioni a causa della scorretta deflazione competitiva come dimostra qui la Commissione europea. In che modo? Con l’abbattimento del costo del lavoro per unità di prodotto, aumentato in media solo dello 0,4% all’anno nel periodo 1999-2008 in Germania; a forza di maggiore disoccupazione fino al 2007 come si dimostra qui; facendo salire i prezzi (qui) del 2% dal 2003 al 2009 mentre i salari crescevano solo dell’1% annuo (6% in tutto). In Germania non c’è solo l’operaio strutturato che guadagna bene e non c’è solo la Wolkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono anche 1/3 dei lavoratori tedeschi che ha mini-job da 400 euro al mese qui, oppure un contratto di lavoro precario qui, tanto che Eurostat il 20 dicembre 2012 certifica (qui) che la Germania ha la più alta quota di lavoratori a basso reddito di tutta l’Europa occidentale (il 22.2%). È su questo che si fonda la bassa inflazione che determina la competitività tedesca. Dal 1999 al 2007 la Germania (prof. A. Bagnai) è stato il secondo paese a crescita più lenta dell’Eurozona dopo l’Italia (la crescita reale è stata dell’1.7% in Germania e dell’1.5% in Italia, contro una media del 2.7% nell’Eurozona), cioè la domanda interna per consumi e investimenti veniva sistematicamente repressa per evitare di far crescere le importazioni. Anche il prof. De Nardis dimostra qui che il salario industriale tedesco, lungi dall’aumentare con la produttività, è invece sceso: del 14,5 per cento in rapporto al valore del prodotto medio del lavoro tra il 2002 e il 2007 (v. figura 3), e che in assenza della necessaria spinta, retribuzioni e prezzi tedeschi sono scesi del 10 per cento circa rispetto ai partner (v.figura 4).
La Germania ha dunque anteposto agli interessi comuni dell’intera Unione i propri egoistici interessi nazionali, e continua a bloccare qualsiasi strumento europeo per far fronte alla crisi. Non è sostenibile né legittimo perseguire politiche nazionali “mercantiliste” che possano provocare danni economici ad altri Paesi per egemonizzare l’intero continente riducendo tutte le altre economie a diventare oggetto delle proprie acquisizioni, soggetto della propria subfornitura industriale e “mercato esterno” dove smaltire l’enorme sovrappiù tedesco. La Germania è fuoriuscita, con il suo comportamento, dalla “giustificazione causale” dell’intero impianto del Patto europeo. All’interno di tutti i Paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ecc, esistono aree “ricche” e aree “povere”, e se la contraddizione non esplode è perché c’è il bilancio pubblico che funge da riequilibratore, bilancio che per l’UE ammonta appena all’1% del Pil dell’Unione, cioè nulla in termini pratici, considerando che ad esempio il bilancio federale negli USA arriva ad un quarto del Pil. MacDougall e Delors, hanno sempre auspicato la creazione di un considerevole budget fiscale centralizzato per l’eurozona, al fine di stabilizzare shock regionali attraverso la redistribuzione delle risorse tra le regioni e realizzando un’adeguata ripartizione degli oneri dell’aggiustamento tra Paesi in surplus e in deficit all’interno dell’Unione monetaria. L’unica terapia efficace, sostenuta anche nel World Economic Outlook dell’Ocse qui il 27 novembre 2012, e dai proff. Krugman, Cesaratto, Stiglitz, Brancaccio, Bagnai, Coats, Stirati, De Nardis qui , Strauss-Kahn, Roubini, Bibow, Cooper, Fantacci qui et al. è che ora questi Paesi in surplus come la Germania riequilibrino la situazione, facendo crescere l’inflazione, la domanda interna e i salari ed esportando di meno. Per evitare politiche nazionali competitive e non cooperative tra gli Stati membri dell’Unione, occorrono anche minimi salariali europei, uno “standard retributivo europeo e un’armonizzazione fiscale in ambito comunitario, volta a rendere omogenei i regimi fiscali applicati in ciascun Paese membro dell’Unione, Ma invece di operare in tal senso, la BCE vorrebbe correggere questo squilibrio imponendo ai PIIGS la deflazione interna attraverso l’aumento della disoccupazione che favorisce il conseguente taglio dei salari, e per questa via riportare i Paesi periferici alla competitività di prezzo perduta. Una ricetta ignobile portatrice di gravi ripercussioni sociali, oltre che controproducente perchè sta aggravando la depressione europea.
3) Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) riconosce per la seconda volta qui che ha sottostimato sistematicamente l’impatto recessivo dell’austerità su PIL e disoccupazione. Non le ha mai azzeccate il FMI, sin da quando Blanchard e Giavazzi (2002) guardavano ai flussi di capitale dai Paesi europei più ricchi verso la periferia come un fenomeno che ne avrebbe sostenuto la crescita, e non (come invece fu) l’alimento di bolle immobiliari e di una crisi del debito. Una quantità ricchissima di ricerche condotte in questi anni (Fatas, Mihov, Blanchard, Perotti, Sumner, Eichengreen, O’ Rourke, Almunia, Mendoza, Vegh, Ilzetzki, Summers, De Long, Eggertsson, Krugman, Romer, Auerbach, Gorodnichenko, Leigh, Batini, Callegari, Melina, Portes, Hurts, Holland, Eichenbaum, et al.) ha sottolineato valori elevati dei moltiplicatori fiscali, cioè che le misure restrittive, prese per ridurre il deficit nei Paesi periferici, danneggiavano l’economia riducendo troppo il PIL e la crescita. Poi è intervenuto il FMI, che in un primo suo documento qui, corredato di dati inequivocabili, ha confermato il tutto scrivendo anche che non esiste un livello del rapporto debito pubblico/Pil tale da poter dire che, al disotto di quello, il rapporto è accettabile, al di sopra no; e affermando inoltre che le riforme strutturali sono inefficaci nel rilanciare la domanda e quindi depressive, mentre i guadagni di produttività ottenuti con le suddette “riforme strutturali” rischiano solo di produrre aumenti di disoccupazione.
Ora esce un nuovo documento del FMI, firmato proprio da Olivier Blanchard (Capo economista del FMI) e da Daniel Leigh, i quali segnalano che tagliando la spesa pubblica il PIL diminuisce più rapidamente di quanto non diminuisca il debito e il rapporto continua a peggiorare, ovvero che per ogni punto percentuale di PIL di contenimento del disavanzo fiscale (al netto degli effetti del ciclo economico), la crescita economica di breve termine si riduce oggi di più di 1,5 punti percentuali, rispetto alla contrazione di mezzo punto percentuale che si registrava negli anni precedenti la crisi. Un errore imperdonabile, dal quale sono derivate sofferenze incalcolabili per i cittadini europei, triple rispetto alle previsioni. Inoltre essi aggiungono che nemmeno la dinamica dello spread dipende soltanto dalla “solidità dei conti pubblici”, “per esempio, un aumento degli spread potrebbe anche essere il risultato di una crescita inferiore a quella attesa e anche causa di minore crescita”. Ovvero che tutte le manovre austere attuate potrebbero aver fatto aumentare lo spread e con ciò peggiorare ancora di più la crescita.
4) RIDURRE I SALARI NON SERVE. Le politiche di rigore a senso unico che hanno portato a tagliare spese e salari per aumentare competitività, esportazioni e crescita, han fatto invece scivolare l’Europa in una nuova grande depressione, facendo crollare la domanda di beni consumo e il mercato interno. Certe ricette , lo scrivo fraternamente, non funzionano in una fase di recessione.
a) La Bce di Mario Draghi ritiene che la principale causa della disoccupazione strutturale non sia la recessione ma l’eccessiva rigidità salariale. Peccato invece che il potere d’acquisto dei lavoratori si sia ridotto in questi anni senza che per questo la disoccupazione abbia smesso di crescere! Secondo l’ILO, International Labour Organization, l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, dal 1980 assistiamo in Italia ad una progressiva diminuzione dei salari, con effetti sulla domanda aggregata di beni e servizi (consumi delle famiglie, investimenti del settore privato, esportazioni e spesa pubblica). Le retribuzioni medie reali nette dal 2000 al 2010 (relazione annuale di Bankitalia elaborata dall’Adnkronos) sono aumentate solo di 29 euro, passando da 1.410 a 1.439 euro (+2%). con una perdita di 5.435 euro l’anno, per ogni lavoratore dipendente, dovuta all’aumento del costo della vita e al progressivo aumento dell’inflazione. La verità è che ideologie assurde come quelle liberiste non vogliono che lo Stato intervenga per ridurre la disoccupazione, dato che essa serve vergognosamente al contenimento delle retribuzioni. Ma gli stessi neoliberisti poi invocano a gran voce lo Stato per ridurre la tassazione sui redditi di impresa, e implorano l’intervento pubblico per accollare le perdite delle imprese o delle banche alla collettività!
b) Se, come dicono i dati Eurostat qui l’Italia non presenta un costo del lavoro particolarmente elevato, ma piuttosto una produttività stagnante, non si capisce come il contenimento dei salari possa incrementarla. Il nostro Paese ha uno dei maggiori tassi di flessibilità (dati Ocse sull’indice EPL) e anche gli orari di lavoro più lunghi: ben 200 ore sopra la media dell’Eurozona che è di 1.573 ore e lavoriamo addirittura 363 ore in più rispetto ad un tedesco (dati OCSE qui e dell’OIL). La competitività di un sistema economico dipende oggi in gran parte dalla qualità dei beni prodotti e dal loro valore, che dipende dalla struttura produttiva, dalla ricerca e dall’innovazione di prodotto e di processo. Da questo punto di vista, l’ipotesi di eliminare la contrattazione centralizzata e legare la dinamica salariale ad accordi aziendali, collegando tendenzialmente la dinamica salariale a quella della produttività interna, avrebbe certo un effetto immediato di abbassamento del costo del lavoro nelle imprese meno efficienti, ma soprattutto un effetto di disincentivo, per le aziende, nella spinta a innovare attraverso nuovi investimenti, col risultato di peggiorare la produttività. In ricerca & sviluppo, su 27 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil, il triplo in meno della Germania. L’innovazione è diventata fattore irrinunciabile dello sviluppo, ed è quindi necessaria una massiccia dose di investimenti innovativi, compito che nella situazione attuale del ciclo economico – e in considerazione della estrema parcellizzazione del capitale in Italia – deve essere svolto primariamente dallo Stato (e dall’Unione Europea).
c) Un congelamento dei salari, inoltre, avrebbe un effetto depressivo sulla domanda interna e quindi sulla crescita. Siamo già in una situazione di recessione e le pessime aspettative e l’incertezza sul futuro condizionano le scelte di investimento e di consumo. E se si vende meno, perché le politiche recessive comprimono la domanda interna – che conta per l’80% della domanda aggregata – necessariamente si produrrà di meno (rispetto al 2007 l’Italia ha perso 1/4 della produzione industriale) e con il calo della produzione inevitabilmente ne soffre anche la produttività oltre ai lavoratori. Si facciano invece politiche economiche di sviluppo e anti-recessive e si scoprirà che con il ritorno della crescita potrà aumentare anche la produttività.
d) Il riallineamento al ribasso dei CLUP (costi del lavoro per unità di prodotto), operato pro-ciclicamente, come regola-guida dell’ “austerità espansiva” durante una crisi da debito privato (cioè originato dagli squilibri commerciali e dall’import) e non pubblico, viene proposta dall’oligarchia europea come una di quelle riforme di “lungo-periodo” che dovrebbero in qualche modo allineare i Paesi in difficoltà verso i cosiddetti “virtuosi”. Ma se tutti i competitori abbassano i salari, non vince nessuno e l’unico risultato è una riduzione della domanda e della crescita. Se il problema è di allineare la competitività di Berlino con quella dei Paesi della sponda Sud si può fare (proff. Stiglitz, Krugman, Cesaratto, Brancaccio, Strauss-Kahn, Bagnai, Roubini, Stirati, Bibow, Cooper et al.) anche facendo crescere in Germania sia i salari reali (in modo da recuperare il terreno perduto rispetto alla produttività) che i prezzi. L’inflazione ha conseguenze meno negative della deflazione, e ciò potrebbe trovare consensi anche tra i lavoratori tedeschi. La Germania ha voluto fregare il prossimo facendo dumping fiscale e sociale per aggredire le economie circostanti, violando le regole di cooperazione europee, e questo richiede ora un riequilibrio della situazione.
e) Ridurre i salari non serve a raddrizzare strutturalmente il carico dell’indebitamento privato con l’estero né a stabilizzare l’attivo della bilancia dei pagamenti perchè il prezzo è una ulteriore, costante compressione della domanda interna e quindi degli investimenti, permettendo così ai grandi possessori di liquidità, in buona parte situati in Germania, di fare shopping a buon mercato nel nostro Paese. E la cessione all’estero della proprietà di nostri capitali produttivi, ha conseguenze sull’esportazione dei relativi profitti e degli interessi sui capitali investiti, cosa che ha riflessi negativi sulla voce dei redditi nel saldo della partita corrente della bilancia dei pagamenti.
5) I DATI SULLA GRECIA, pubblicati il 31 ottobre dal Financial Times, parlano chiaro: il rapporto debito/PIL, che nei programmi dell’oligarchia (BCE, FMI, Commissione europea) doveva avere un massimo nel 2013 al 167% , toccherà invece il 189% e nel 2014 è stimato al 192%, Nei grafici pubblicati si vede come il debito su PIL sale a causa dell’austerità, mentre sarebbe sceso se avessero promosso politiche fiscali espansive. Dietro quei numeri c’è la prova della fine del buon senso, perché il creditore ha sempre interesse alla capacità del debitore (la Grecia) di produrre reddito e quindi di pagare il conto; e per produrre reddito, per crescere, serve una buona spesa pubblica, serve uno stimolo pubblico ai consumi. Dietro quei numeri ci sono persone in carne e ossa che soffrono, e c’è la fine, oltre che del buon senso, anche della solidarietà umana e cristiana!
6) Il World Economic Outlook dell’Ocse del 27 novembre 2012, afferma che: ”Queste politiche fiscali pro-cicliche (cioè austerità in recessione) sono in linea di principio indesiderabili, e ogni Paese ha, di suo, poco spazio di manovra”. Dunque non andrebbe varata alcuna ulteriore manovra. Uguale concetto esprime il “Self-defeating austerity?” di Dawn Holland e Jonathan Portes, pubblicato il 1^ novembre che presenta i risultati del modello econometrico globale del National Institute il quale suggerisce come, in tempi normali, il consolidamento della posizione fiscale di un Paese porta alla riduzione del rapporto debito/PIL, ma nella situazione attuale ha l’effetto opposto, cioè un aumento del rapporto debito / PIL, perché l’austerità ha impatto sulla crescita. Lo stesso dimostrano Ball, Leigh, Loungani (2011), Guajardo, Leigh, Pescatori (2011), Coenen , Erceg et al. (2012). E Roberto Perotti (2012) in “The “Austerity Myth” Gain Without Pain?”. L’“austerità espansiva” è, secondo il Roosevelt Institute, frutto della scelta solo di alcuni casi e periodi ben determinati, perché, allargando i periodi considerati, si scopre che i tagli dei deficit sono avvenuti dopo larghi disavanzi precedenti, quando l’economia si era ormai ripresa
Studi del FMI contro i tagli di bilancio. L’esperienza passata non contiene nessun caso in cui i tagli di bilancio hanno effettivamente generato un aumento dell’attività economica. Il Fondo Monetario Internazionale ha studiato 173 casi di tagli di bilancio dei singoli paesi e ha rilevato che il risultato coerente è la contrazione economica quindi il ritardo della ripresa. Cosa del resto dimostrata dalle ricette tedesche della Bundesbank e della signora Merkel, applicate in Europa anche dal governo Berlusconi prima e dal governo Monti poi. Nei pochi casi in cui il consolidamento fiscale è stato seguito da una crescita, ci si è arrivati solo attraverso il deprezzamento della valuta nei confronti di un mercato mondiale forte, al momento non possibile.
9) Anche la BCE, proprio di recente, con i suoi ricercatori (assieme ad uno studioso della Cambridge University), prendendo in considerazione nel loro lavoro 41 anni di politiche economiche (1970-2011) per 14 paesi europei, scopre che: “Un aumento del costo del debito dell’1% porta ad un aumento dell’avanzo primario (entrate meno uscite al netto degli interessi) dell’1,9% dopo 10 anni, ma, malgrado ciò, il rapporto debito su PIL dopo 10 anni è più alto dell’1% a seguire al rialzo del costo del debito”. A dimostrazione che l’austerità fa male ai conti pubblici perché genera recessione, e solo la crescita produce conti in ordine.
10) La correlazione tra debito e crescita è spesso utilizzata come argomento a favore di una politica fiscale restrittiva, ma Ugo Panizza e Andrea Filippo Presbitero (11.05.2012) “Public Debt and Economic Growth: Is There a Causal Effect? mostrano che non esiste alcuna evidenza a sostegno dell’ipotesi secondo la quale il debito pubblico provoca una riduzione della crescita economica. Il legame tra debito e crescita potrebbe scaturire dal fatto che è la ridotta crescita economica a generare elevati livelli di debito pubblico. Pertanto la relazione tra debito e crescita non dovrebbe essere usata come uno degli argomenti a favore del consolidamento fiscale. Tesi confermata da Paul De Grauwe, in “The European Central Bank as a lender of last resort,” (18 agosto 2011). Certo esiste un livello oltre il quale il debito diventa insostenibile e un livello del rapporto tra debito e Pil in corrispondenza del quale gli effetti distorsivi del debito sull’economia si fanno sentire, ma i risultati del loro studio suggeriscono che le economie avanzate all’interno del loro campione si attestano ancora al di sotto della soglia oltre la quale il debito inizia a generare effetti negativi sulla crescita.
11) È stato recentemente pubblicato l’ennesimo studio che conferma che l’austerità fa male e le espansioni fiscali fanno bene. I tre ricercatori mostrano che il componente della politica fiscale che funziona meglio sono gli investimenti pubblici e soprattutto la spesa pubblica per consumi di beni e servizi.
SCEGLIERE IL PARTITO DELLA CRESCITA ECONOMICA E OCCUPAZIONALE FONDATA SULLA SPESA PUBBLICA E SULLO STIMOLO AI CONSUMI.
TANTI PRENDONO UN GRANCHIO SUL FISCAL COMPACT.
Il settore privato non ha ripreso a spendere e il credito, benzina della spesa privata, non fluisce verso consumatori e imprese: per questo sono necessarie politiche fiscali espansive e una politica monetaria accomodante. Che occorrano politiche di rilancio dell’economia, lo riconosce del resto anche l’International Labour Office delle Nazioni Unite. Una politica fiscale espansiva potrebbe aiutare a uscire dalla trappola del debito elevato in assenza di crescita, perché farebbe crescere il Pil (il denominatore). Infatti il sostegno pubblico alla domanda contribuirebbe a ripristinare la fiducia e quindi ad incentivare una ripresa della domanda del settore privato. La Cassa Depositi e Prestiti, da questo punto di vista, può diventare uno dei soggetti essenziali per l’innovazione e la riorganizzazione del sistema Paese. Se dovessimo attendere che la nostra iniziativa privata, ancorché incentivata finanziariamente, possa raggiungere i livelli di risorse impegnate nel sistema dell’innovazione degli altri Paesi europei, dovremmo attendere ormai – ammesso che possa partire – alcuni decenni, bisogna quindi misurarsi con l’intervento pubblico in tutte le sue caratteristiche, da datore di lavoro a costruttore di domanda, a sostenitore di scelte, ad effettivo conduttore delle imprese partecipate, a generatore e gestore di servizi e quindi di welfare. Le risorse dovranno essere recuperate attraverso risparmi energetici, fiscalità ambientale, riduzione delle inutili spese militari, una serrata lotta alla corruzione e all’evasione, la riduzione dei costi della politica, una redistribuzione della spesa pubblica, misure di giustizia sociale, redistribuzione di risorse e maggiore progressività fiscale, come chiede del resto la nostra Costituzione.
IL FISCAL COMPACT non va usato per “ridurre a partire dal 2015 lo stock del debito pubblico” come è scritto nell’Agenda Monti, perchè il Fiscal Compact non chiede la riduzione dello stock del debito ma del suo rapporto con il PIL dando quindi importanza agli elementi – come la crescita – che riducono il debito, e ai fattori – come la crescita – che aumentano il PIL.
Molti fanno poi calcoli sbagliati scrivendo che il Fiscal Compact porterà impegni addizionali di restrizione per 40 miliardi l’anno. Alcuni si sono meravigliati quando Monti ha scritto nella sua Agenda: ”…tenuto conto del fatto che, realizzato il pareggio di bilancio e in presenza di un tasso anche modesto di crescita, l’obiettivo di riduzione dello stock del debito sarebbe già automaticamente rispettato”. In effetti, come dimostrato qui dal prof. Giuseppe Pisauro su lavoce.info, ai livelli correnti del rapporto tra il debito e il Pil, la regola del bilancio in pareggio domina quella della riduzione del debito se la crescita nominale del Pil è superiore al 2,5%. Infatti per rispettare la regola di 1/20, con un debito al 120% del Pil e il pareggio di bilancio, è sufficiente che il Pil nominale cresca del 2,5 per cento: in tempi appena normali sono valori bassi, e perché si verifichino basta un po’ di inflazione. Tanto per dare un’idea, nel 2000-2007, anni di crescita reale molto bassa, la crescita nominale del Pil in Italia è stata in media del 3,6 per cento l’anno. E se non fosse superiore al 2,5%, probabilmente si potrebbe invocare la clausola sulle ‘circostanze eccezionali’ per sospenderne l’applicazione. Dunque il pareggio di bilancio basta e avanza a garantire il rientro dall’eccesso di debito. Anche se esso rappresenta comunque, in una fase di crisi, un vero e proprio cappio al collo per la crescita, come dimostra una mole di analisi econometriche, di verifiche empiriche tra cui quelle di 5 premi Nobel (Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eirc Maskin e Robert Solow) qui, affermando tra l’altro che i “tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo possono danneggiare la ripresa.
IN CONCLUSIONE…
Solo un drastico cambio di rotta può farci uscire dalla crisi e queste elezioni sono l’occasione giusta per cambiare le cose, rilanciare l’economia e ripensare le politiche europee in sintonia con le forze progressiste e socialdemocratiche dell’eurozona e con l’appoggio degli altri Paesi colpiti dalle politiche di stupido rigore. Bisogna cambiare strada rispetto alle derive di destra moderate-conservatrici, perchè “l’austerità non ha mai funzionato, né in Asia negli anni ‘90 né in Argentina” (prof. J. Stiglitz, ex capo economista della Banca Mondiale, Nobel per l’economia nel 2001). Per Stiglitz “i leader europei ammettono che l’austerità rallenterà la crescita col rischio di recessione e di default dei Paesi in difficoltà, ma non fanno nulla per rilanciarla”.
“Segavano i rami sui quali erano seduti
E si scambiavano a gran voce le loro esperienze
di come segare più in fretta,
e precipitarono con uno schianto,
e quelli che li videro
scossero la testa segando
e continuarono a segare”
Bertold Brecht (da Esilio)
Franco Pinerolo