Geopolitica – In USA dietro le quinte e dal fronte caldo del Sudamerica
Parliamo oggi di geo-politica. Dalla linea del fronte del Sudamerica.
Come l’Ecuador, il Brasile e l’Argentina. Stanno combattendo anche per noi. Perché tutto ciò che sta accadendo là, ha dei riflessi potentissimi in Italia.
Ecco perché:
Quattro bei schiaffoni assestati sulla faccia di una delle prime dieci più importanti aziende del pianeta, il colosso petrolifero-finanziario denominato Chevron.
Si tratta della prima sentenza giuridica (e già questa sarebbe una notizia clamorosa) più ricca in termini economici (il che aggiunge clamore a clamore) nonché la più potente dal punto di vista politico (che aggiunge al clamore + clamore, la necessaria attenzione che merita) mai sancita nella Storia del continente sudamericano.
Perché da una parte abbiamo un’azienda che nel 2011 aveva un fatturato di circa 250 miliardi di euro (il pil della Grecia) e dall’altra la Repubblica dell’Ecuador, modesta nazione sull’Oceano Pacifico, con un pil nazionale intorno ai 20 miliardi di euro, una popolazione mite, pacifica, piuttosto povera, e priva di esercito militare (il loro budget annuo per armamenti è pari a quello di una caserma italiana a Viterbo, per dire).
L’Ecuador ancora una volta sale alla ribalta della cronaca internazionale, dimostrando la preponderante forza del Diritto Civico internazionale quando essa è accompagnata da un’adeguata classe politica che si rifiuta di scendere a compromessi con i mega colossi finanziari planetari.
La notizia secca è la seguente: “L’azienda petrolifera statunitense, con sede legale a Dallas, Texas, Usa, denominata Chevron, ha definitivamente perso la class action intentatagli contro da 32.500 indiani autoctoni dell’ Ecuador, sostenuti dal governo che si è presentato come parte civile e danneggiata. In seguito alla sentenza definitiva, la Chevron è stata condannata al pagamento di 19 miliardi di euro per “crimini contro l’umanità, devastazione del territorio idro-geologico, sfruttamento intensivo non autorizzato di località naturali protette, provocando la morte e la miseria di decine di migliaia di persone dal 1964 al 2004”.
La sentenza definitiva non è nuova, è del febbraio 2011.
Poi c’è stato l’appello, nell’ottobre del 2011, che ha riconfermato la sentenza portando il risarcimento per danni da 15 a 19 miliardi di euro. La Chevron, in quella occasione, aveva protestato la decisione formalmente, sostenendo che “il governo dell’Ecuador non è autorizzato legalmente a formulare tali sentenze in quanto avvezzo all’esercizio di pratiche dittatoriali” e di conseguenza si è rivolta “formalmente e ufficialmente” alla Corte Suprema d’Alta Giustizia statunitense (sezione esteri) per chiedere l’annullamento della sentenza e il suo non riconoscimento. Gli Usa, infatti, sono stati identificati come “territorio giurisdizionale valido” perché l’atto d’accusa e la denuncia erano state recapitate –in maniera formalmente ineccepibile, nel pieno rispetto delle leggi americane- direttamente, a mano, nelle mani di un funzionario della Chevron, in Texas, da parte di un segretario d’ambasciata, accompagnato da due avvocati esperti in diritto internazionale. Il 10 ottobre del 2012, finalmente la Corte statunitense si è espressa, dopo aver valutato la documentazione che ha ritenuto la sentenza del Tribunale di Quito legittima, e quindi applicabile.
La Chevron si è appellata (come la Legge gli consente) contestando la sentenza dei magistrati, e si è rivolta direttamente al Presidente Usa, Barack Obama, il quale avrebbe potuto esercitare la prerogativa di annullamento di tale sentenza, avvalendosi del comma 6 dell’articolo 4 del codice di regolamentazione presidenziale, laddove si spiega come “il presidente ha il potere di stabilire o meno la liceità di qualsivoglia sentenza internazionale ai danni di un’impresa che ha sede legale e opera nel territorio statunitense, a condizione che tale sentenza venga identificata, provata e definita, come lesiva degli interessi strategico-militari della federazione Usa”.
E qui è arrivata la notizia bomba, e l’inatteso aiuto e solida alleanza (questa è stata per davvero una sorpresa per l’intero continente sudamericano) che il presidente Rafael Correa ha ottenuto, al di là delle sue migliori aspettative.
Il presidente della Chevron, infatti, è uomo abituato a dare ordini a quasi tutto il mondo, e di sicuro a tutti i presidenti Usa (la Enron, la Wel, la Halliburton, sono tutte aziende della Chevron) dato che nel suo comitato ristretto dei probiviri siedono George Bush sr., George Bush jr., Jeff Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Bill Gates, il presidente della Visa e dell’American Express, e altri 10 grossi papaveri che da sempre foraggiano ogni presidente. Ha chiesto immediatamente udienza al presidente ottenendola.
Data dell’appuntamento: 17 ottobre 2012. Ma all’ora dell’incontro, ha avuto una sorpresa, quella sì davvero inattesa. Invece di vedersela da solo, a tu per tu, con Obama –come pensava- si è trovato in una stanza della Casa Bianca davanti a tre persone: il Ministro degli Esteri, Hillary Clinton, e due membri dell’avvocatura di Stato, un democratico e un repubblicano, come la Legge impone in Usa. Il presidente della Chevron, giustamente, è sbiancato. La Clinton gli ha consegnato copia della delega avuta dal Presidente e controfirmata dai due legali presenti, ed è iniziato il colloquio.
Peccato che non si chiami anche lei Christine, altrimenti avremmo la guerra delle tre Cristine.
Era dall’agosto del 1997 che Hillary Clinton aspettava quel momento.
E chi la conosce bene sa che è una donna vendicativa, oltre che una geniale stratega politica. Perché il presidente della Chevron è il più forte nemico personale di Hillary Clinton da quindici anni.
Fu lei stessa a raccontarlo, nella primavera del 1998, al grande giornalista investigativo televisivo Peter Jennings, in una epica intervista andata in onda sul network ABC, quando spiegò come la Chevron, per conto del suo presidente, avesse imbastito lo scandalo sessuale di Monica Levinski con l’esclusivo interesse politico di ottenere la messa sotto accusa di suo marito e farlo dimettere perché aveva presentato al Congresso una legge per alzare l’aliquota delle tasse alle compagnie petrolifere. Allora, divenne un duello personale tra la Chevron e la Clinton che appassionò chi seguiva la vita politica americana. Perché quel duello è proseguito negli anni e non si è mai placato.
E così, la Clinton ha spiegato alla Chevron che non potevano far nulla per loro. Sembrerebbe che il presidente si sia imbizzarrito e abbia spiegato il suo punto di vista. “ a quegli indiani bastardi io non gli do neppure un dollaro”. I due avvocati, quindi, gli hanno spiegato come funziona la Legge. Nel caso lui si fosse rifiutato di pagare, dato che –proprio poche ore prima- era arrivata, attraverso canali diplomatici, la richiesta ufficiale da parte della Repubblica dell’Ecuador di ottenere il pagamento, lo Stato Federale Usa non si sarebbe fatto carico del debito, e subito dopo avrebbero ritirato alla Chevron “l’esercizio della licenza commerciale in tutto il territorio Usa”. Gli hanno spiegato che avrebbero dato ordine all’FBI di sigillare tutte le pompe di benzina e la Chevron sarebbe stata denunciata dal governo e sottoposta a processo da parte di una commissione del Congresso. Il presidente della Chevron si è alzato, ha mandato tutti a quel paese e se n’è andato. I suoi avvocati hanno avvertito l’Ecuador.
E così, in data 22 ottobre 2012, il piccolo Stato dell’Ecuador ha congelato tutti i conti correnti della Chevron in ogni nazione del continente sudamericano (circa 8 miliardi di dollari) e ha presentato regolare denuncia all’interpol e al consiglio di sicurezza dell’Onu.
In Sudamerica non si parla d’altro che di questo e della notizia successiva.
In Italia, neppure l’ombra della notizia, se non una nota di quattro righe (nel senso di 4) apparsa su Il Sole 24 ore, poi scomparsa, che non è stata ripresa da nessuno, né sul mainstream né in rete. Ad esclusione di un sito italiano che si occupa di problemi dell’ecologia sostenibile e odia le aziende produttrici di petrolio. Il sito si chiama greenpoint.it. Ecco l’articolo che hanno pubblicato:
La Corte Suprema Usa ha respinto la richiesta della Chevron per l’annullamento di una sentenza, emessa da un giudice ecuadoriano, che gli impone di pagare indennizzi per 18,2 miliardi di dollari per i danni causati dalle trivellazioni petrolifere in Amazzonia. La decisione della Corte Suprema è l’ultimo sviluppo in una lunga battaglia legale che ha scaricato sulla Chevron (che nel 2001 ha comprato la concessione petrolifera in Equador ereditando le responsabilità della Texaco) i danni causati dal continuo sversamento di greggio da parte di un consorzio capeggiato dalla Texaco. La sentenza ecuadoriana da 18,2 miliardi di dollari è stata emessa nei primi mesi del 2011, dopo 8 anni di indagini nella città petrolifera di Lago Agrio, l’Ecuador ha scoperto che la Texaco deliberatamente sversato più di 16 miliardi di galloni di greggio, fanghi e rifiuti tossici in Amazzonia dal 1964 al 1992, che hanno gravemente inquinato sorgenti, falde e corsi d’acqua, causando problemi di salute tra gli abitanti e decimato tribù indigene della regione del Lago Ario, così 30.000 persone hanno promosso l’azione legale.
Il rappresentante della Chevron in Ecuador, Rodrigo Perez Pallares, aveva ammesso che erano stati sversati almeno 16 miliardi di galloni di “produced water” nei corsi d’acqua dell’Amazzonia ecuadoriana in aree utilizzate dalle comunità indigene per l’acqua potabile, per fare il bagno e pescare. L’environmental auditor della Chevron, Fugro-McClelland, ha confermato che nel 1992 in Ecuador la Chevron «Ha sversato “Produced water” dai sui impianti produttivi al fine di scaricarla nei torrenti e nei corsi d’acqua» e che, ad eccezione di un impianto, nessuno degli scarichi «Era registrato» presso le autorità ecuadoriane. La Corte dell’Equador ha trovato prove dettagliate di oltre 900 pozzi contenenti rifiuti scavati nel suolo della foresta pluviale e abbandonati dalla Texaco che sono pieni di fanghi petroliferi che continuare a contaminare i terreni e le acque sotterranee. Secondo i rilievi degli esperti il materiale tossico ammonterebbe ad oltre 5,6 milioni di m3, ai quali vanno aggiunte le numerose fuoriuscite di petrolio e il gas flaring che ammorba l’aria.
La Chevron aveva subito rigettato la decisione della corte ecuadoriana, definendola «Fraudolenta» e «Viziata da cattiva condotta giudiziaria» inoltre la Big Oil sosteneva che la decisione non fosse esecutiva ai sensi del diritto di New York. Intanto gli avvocati degli ecuadoriani hanno recentemente avanzato richieste che puntano al sequestro di miliardi di dollari di asset della Chevron in Canada e Brasile ed hanno promesso di promuovere azioni di sequestro al più presto anche in altri Paesi, cosa che scondo la Chevron le avrebbe creto potenziali problemi operativi. La Chevron si era rivolta alla Corte suprema di New York ma ha perso, e l’high court ha respinto la sua richiesta di un provvedimento inibitorio che avrebbe impedito l’applicazione in tutto il mondo della sentenza dell’Ecuador.
Si tratta di una sconfitta per tutta la lobby delle Big Oil: diversi business groups tra cui la Camera di Commercio Usa, la National association of manufacturers ed Halliburton, che aveva presentato memorie per conto del gigante petrolifero.
Nel 2010 e nel 2011 gli avvocati della Chevron hanno sostenuto più volte che il pagamento della sentenza causerebbe «Un danno irreparabile» alla compagnia» con sequestri di petroliere ed attrezzature che potrebbero addirittura interrompere il flusso di distribuzione del petrolio da parte della multinazionale e quindi tutto questo «Incide non solo in una giurisdizione, ma in tutto il mondo». Fino ad ora la Chevron nella sua campagna di pubbliche relazioni sosteneva che i tribunali americani avevano trovato la “frode” nel procedimento dell’Ecuador, ma la sentenza Usa la smentisce categoricamente e forse definitivamente.
Aaron Marr Page, un avvocato degli ecuadoriani, ha detto: «L’ultima sconfitta della Chevron davanti alla Corte Suprema è un esempio della battaglia della sempre più inutile della compagnia per evitare di pagare i suoi obblighi giuridici in Ecuador. Chevron ha fatto ricorso alla giustizia mentre con i suoi scarichi tossici continua a creare un pericolo imminente di morte per i popoli indigeni in Ecuador». Un tribunale dell’Ecuador ha ordinato il blocco di tutti i beni nel Paese del gigante petrolifero Chevron. La decisione è stata presa in seguito al rifiuto della compagnia statunitense di pagare una multa da 19 miliardi di dollari comminata nel febbraio 2011 da un tribunale ecuadoriano. La Chevron è accusata dalla popolazione locale, 30mila persone, di aver provocato, tramite la sua controllata Texaco, gravi danni ambientali durante il periodo in cui estraeva petrolio nella foresta amazzonica, tra il 1964 e il 1990. Chevron ha fatto sapere di rifiutare la decisione del tribunale, che interviene una settimana dopo che la Corte suprema degli Stati Uniti, cui la compagnia si era rivolta, ha rifiutato di bloccare la multa miliardaria.
Le altre due notizie riguardano l’Argentina e il Brasile.
Per quanto riguarda l’Argentina la questione è all’ordine del giorno in tutto il continente sudamericano, seguita con enorme attenzione anche in tutta l’Europa del Nord e in Asia, dato che il ministro degli esteri argentino, Hector Timerman, in data 22 ottobre 2012, è volato a New York dove ha presentato formale istanza all’assemblea dell’Onu contro il cittadino americano Paul Singer, un noto sciacallo della finanza speculativa e vera e propria iena mercatista, il quale, a nome di un fondo speculativo d’investimento con sede a Panama, ha fatto sequestrare nel Ghana, 20 giorni fa, la nave scuola argentina “Libertad” sostenendo di vantare un credito dal governo argentino, immediatamente appoggiato in questo frangente dal Fondo Monetario Internazionale. Ecco qui di seguito, il comunicato stampa ufficiale del governo argentino, pubblicato su tutta la stampa internazionale (l’Italia è tra le nazioni che hanno scelto di non pubblicarlo):
“Por medio de un comunicado que leyó en la Casa Rosada junto al ministro de Defensa, Arturo Puricelli, Timerman anticipó que mañana liderará una misión al Consejo de Seguridad de las Naciones Unidas, para denunciar la violación de los derechos humanos de los tripulantes y de tratados internacionales y la comisión de delitos financieros. La decisión implica el fracaso de las negociaciones iniciadas el lunes pasado por una delegación diplomática enviada a la capital del país africano, Accra, para liberar el buque retenido en el puerto de Tema. El comunicado incluye fuertes críticas al país africano y al juez que acogió el pedido de los bonistas. Y reitera la denuncia de un complot entre “los fondos buitre” y “sus socios argentinos”, para extorsionar al país..
Luego de que la Presidenta ordenara ayer evacuar la Fragata Libertad, retenida desde hace 20 días en Ghana, el canciller Héctor Timerman partió este mediodía rumbo a Nueva York para tratar el caso ante Naciones Unidas.
Según el comunicado emitido esta mañana por el Ministerio de Relaciones Exteriores, el funcionario mantendrá durante el lunes reuniones con las autoridades del organismo internacional, incluida una cita con el secretario general, Ban Ki-Moon. “Timerman lleva como único tema de agenda la detención ilegal de la Fragata Libertad en Ghana, en cuanto se trata de un preocupante precedente para la navegación mundial debido a que un juez ghanés ha decidido no respetar la inmunidad de una embarcación militar reconocida por el Derecho Internacional Público del que Ghana es parte”, dice el comunicado. La Fragata Libertad está retenida desde hace 20 días en Ghana por una demanda presentada por tenedores de bonos en default de la Argentina. La medida de desalojar la nave fue anunciada ayer por Timerman, quien denunció que los 326 tripulantes del navío estaban en riesgo por “falta de garantías”.
Il debito chiesto da questo finanziere riguarda la questione dei bonos argentini andati in default nel 2001. In seguito alla bancarotta, il governo argentino, com’è noto, a differenza dell’Ecuador si è dichiarato “nazione insoluta e insolvibile” ma ha riconosciuto “pienamente e legittimamente” la quantità di debito dovuta, chiedendo e ottenendo dilazioni e sconti pagabili nell’arco di dieci anni, di cui l’ultima tranche è stata saldata lo scorso 2 agosto 2012, con sei mesi di anticipo sulla scadenza prevista.
In seguito alla varie contrattazioni, sono stati stabiliti diversi parametri, approvati, a suo tempo, da tutte le organizzazioni internazionali. Il signor Paul Singer è un cittadino privato, proprietario del fondo Elliot management, con sede a Panama. La sua lucrosa attività decennale, consiste nel gettarsi come una iena sulle nazioni sudamericane acquistando buoni del tesoro nei momenti di difficoltà scommettendo al ribasso per spingerli al fallimento e al momento giusto vendere il tutto, incassare il premio speculativo dell’assicurazione, mandando a picco le quotazioni.
Lo ha fatto sei volte in Perù, Bolivia, Argentina. Il tutto gestito da una società che si chiama NML Capital, con sede a Panama, di cui è stato consulente Walter Lavitola. Il signor Paul Singer è uno dei grandi finanziatori di Mitt Romney. Costui sostiene il diritto di prelazione sul premio di assicurazione dei tango bonds, datato 2002, in quanto ha protestato l’offerta di patteggiamento offerta dal Fondo Monetario Internazionale, la cui presidenza –guarda caso- proprio un mese fa ha scovato un comma dell’accordo e gli ha dato ragione.
E così, un cittadino privato statunitense ha convinto (????) il governo del Ghana a sequestrare una nave militare argentina (con 25 marinai a bordo) a saldo della cifra da lui richiesta, violando ogni convenzione internazionale del Diritto.
Non si parla d’altro che di questo, in tutto il Sudamerica, in Canada, e in Usa nella sezione esteri.
La Kirchner , va da sé, è furibonda, così come lo è l’opinione pubblica argentina e sudamericana. Tanto più che il signor Singer – appoggiato e sostenuto da Mitt Romney pubblicamente un’ora e mezza prima di scontrarsi sulla politica estera con Obama alla tivvù- ha dichiarato con la conseguente eleganza che lo contraddistingue “è bene che in Sudamerica si diano una regolata, quei topi da fogna, e che capiscano che il mercato decide il destino delle Libertà” (la nave argentina si chiama, per l’appunto, Libertad).
Ed è arrivata, pertanto, la terza notizia, questa tutta politica, al 100% politica, che va a colpire il cuore della Repubblica Italiana, perché, come ha detto qualche giorno fa alla tivvù argentina il portavoce del governo, “questa è una porcheria del trio fascista europeo e la pagheranno molto cara questa volta” (ndr. Il trio fascista sarebbe Christine Lagarde/ Mario Draghi/Mario Monti).
Il conto lo sta presentando il Brasile, la nazione più potente del continente sudamericano, dal punto di vista militare, economico, culturale, politico.
E’ il grande sindacalista Lula da Silva, ex presidente che ha cambiato il volto e le prospettive esistenziali della nazione carioca, a guidare la carica. In Brasile hanno iniziato una campagna pubblica di massa raccontando come funziona il sistema di corruzione fascista degli italiani e di come per dieci anni sono stati obbligati a violare ogni Legge internazionale per pagare tangenti ai funzionari governativi italiani che “si facevano dare il via libera dalle apposite commissioni europee per venderci armi, cibo e medicine, ma poi pretendevano la percentuale tra il 10 e il 15% sottobanco versate su conti estero su estero ai diversi ministri e sottosegretari.
L’ex ministro della difesa brasiliano ha fatto sapere pubblicamente di essersi messo a disposizione della magistratura italiana per fornire ogni dettaglio che gli venga richiesto. E lui ha in mano tutte le ricevute dei versamenti fatti, i nomi delle personalità, i conti correnti, le cifre. Da un primo calcolo degli analisti economici sudamericani si rileva che il buco nel bilancio statale della Repubblica Italiana nella sezione “forniture di materiale strategico al Sudamerica” nell’arco di tempo tra il 2001 e il 2011 si aggira intorno ai 50 miliardi di euro. Ai quali bisognerebbe assommare quelli relativi all’Africa, all’Asia, al Medio-Oriente e ai paesi arabi, località che non seguo, di cui non dispongo informazioni dettagliate. Una cifra questa che non è inserita “ufficialmente” nel bilancio, ma che risulta “realmente” spesa; il che spiega in parte come sia possibile che a fronte di tutte queste manovre economiche degli ultimi 30 mesi, la spesa pubblica aumenti ancora invece di diminuire.
Ne viene fuori, quindi, un quadro geo-politico completamente diverso da quello che ci stanno raccontando i media tutti i giorni a proposito del cosiddetto “scandalo Finmeccanica”. Non c’è nessuna brava persona che si è pentita e ha confessato, non c’è nessun successo della magistratura, non c’è nessuna abilità investigativa né tantomeno volontà governativa nel dire come stanno le cose.
Ci sono i brasiliani che stanno vuotando il sacco, consapevoli di trovarsi sulla prima linea del fronte. E’ un’altra storia.
Perché prosegue la guerra tra le due Cristine.
E non si tratta di zuffe isteriche tra due donne capricciose.
Si tratta di ben altro.
Si tratta dell’incompatibile scelta tra un continente che ha detto “no ai diktat della finanza speculativa internazionale” e ha scelto di essere autonomo, indipendente, e investire risorse, intelligenza, volontà ed entusiasmo, che si sta scontrando con nazioni come l’Italia che ha invece scelto di mettersi al servizio passivo dei colossi finanziari che stanno strozzando l’economia del continente, ben rappresentati dal governo che abbiamo.
Si tratta della campagna elettorale statunitense che si gioca anche su questi terreni.
Perché è completamente FALSO ciò che sostengono i beceri complottisti che presentano Romney e Obama come due facce della stessa medaglia. E’ una idiozia bella e buona. Come a dire che se nel 1932 invece di Franklin Delano Roosevelt fosse andato al potere il suo avversario sarebbe stato uguale oppure se nel 1960 invece che Kennedy avesse vinto Nixon sarebbe stata la stessa cosa.
O -nel caso dell’Ecuador- se invece di vincere nel 2007 Rafael Correa avesse vinto il suo antagonista (laico, social-democratico, libertario, ma guarda caso amante delle multinazionali Usa) non sarebbe cambiato nulla. Il che autorizza e spinge a pensare che se in Sicilia vince Cancellieri o Miccichè è la stessa cosa, così come è la stessa cosa se le primarie del PD le vince Nichi Vendola o Matteo Renzi.
Non è così. Ma soprattutto non è così che si legge la Politica.
Esiste un “potere forte” che è molto più forte di qualsivoglia altro potere: è il “potere personale”, ed è quello manifestato nella Storia, negli ultimi 10.000 anni, in tantissimi frangenti. Sono gli individui che hanno fatto la differenza, e si sono assunti la responsabilità di operare cambiamenti epocali. E’ avvenuto, è accaduto. Se non fosse così, il fascismo appena insediato, nel maggio del 1924 non avrebbe deciso di far assassinare Giacomo Matteotti, tanto un socialista valeva l’altro. E invece non era così.
Non è così, e non sarà mai così.
Se vince Romney vincono gli strozzini della finanza che vogliono de-industrializzare l’Europa e cinesizzare il mercato del lavoro per schiavizzarci definitivamente.
Se vince Obama, non saranno affatto rose e fiori. Ma una cosa è certa. 24 ore dopo la sua vittoria che io fortemente auspico, si apre “il Grande Contenzioso” e lì avremo una carta e una possibilità da giocarci tutti.
Perché il vero nemico degli Usa è la Cina.
Il vero nemico americano è lo yuan che sta per sostituire il dollaro, ed è ciò che vogliono i colossi finanziari. E quindi, Obama, per salvaguardare il suo impero e combattere lo yuan, deve “assolutamente” abbattere l’euro, moneta solo virtuale, sull’orlo del collasso, sostenuta soltanto dai cinesi a Hong Kong in funzione anti-americana. Sono due prospettive opposte, altro che uguali!
Volete uscire dall’euro? Volete che la BCE venga messa all’angolo? Volete che ci sia anche una possibilità di abbattere il fiscal compact?
Sperate, allora, che vinca Obama.
Lì, a Washington, Paul Krugman, John Stiglitz, Nouriel Roubini e Christina Rohmer, stanno già scaldando i motori. Lo sanno benissimo qual è la posta in gioco, e sanno quale sia il fronte della battaglia, e come combatterla.
In Italia, non hanno neppure capito che stiamo in guerra.
Anche perché nessuno spiega il funzionamento dell’attuale quadro geo-politico.
Va da sé che non è certo casuale.
Sergio Di Cori Modigliani
(http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/)