Francesco Pullia: “Carne infelice e latte dannoso… Passa al vegetarismo etico”

Siamo circondati, sommersi, da mistificazione e malafede. Spesso e volentieri, ci si appiglia a costruzioni mentali pretestuosamente strumentali pur di non scalfire credenze che, se si sgretolassero, metterebbero in crisi le basi di un sistema al tempo stesso ideologico ed economico. Il rapporto con gli altri animali, con i non umani per intenderci, è la cartina di tornasole di questa condizione, perché rimanda ad un insieme di ordini sedimentato, stratificatosi nel corso del tempo. Un insieme fondato sullo sfruttamento, sulla violenza, sull’assoggettamento, sull’annientamento dell’altro. Siamo soliti, ad esempio, interrogarci su “cosa” mangiamo, mentre dovremmo farlo su “chi”, su quale essere, sottoposto ad allevamento, uccisione, sezionamento, è finito nel piatto.
Non solo l’altro viene privato della vita ma viene oggettivato, reificato. Occultiamo, tramite l’invisibilità, i luoghi da cui il vivente uscirà sotto forma di trancio, di parte sottratta a una totalità palpitante. Rendiamo difficile l’accesso ai lager in cui individui di specie diverse, ridotti a numeri e cartellini, vengono forzatamente nutriti e sottoposti ad abrasioni o menomazioni per produrre carne, latte, uova, paté, confezioni di pesce, capi d’abbigliamento.
Lo strazio consumato lontano dagli occhi e dalle orecchie, lo sprezzante esercizio di brutale dominio perpetrato, come nelle deportazioni in massa durante il nazismo o lo stalinismo, con la complicità, diretta o indiretta, volente o nolente, dei consumatori, non (si) concede pause.
Come se non bastasse, ecco la trovata di ammantare l’orrore, fornendo un alibi, infiocchettandolo. Ed ecco, allora, lo slow food, la “carne felice” o pseudo tale, scaturita cioè da un’operazione di imbellettamento il cui scopo è alleviare le coscienze dei consumatori. Come se al bovino o al suino allevato nelle fattorie “bio” non spetti, in fondo, identica fine del bovino o del suino che ha trascorso la propria esistenza nell’artificiosità dei grandi complessi industriali.
E’una sorta di etichettamento eufemistico, ha scritto Annamaria Manzoni, quello che “ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti (per essere stati evirati, amputati, appena nati, di denti e coda), che definisce la caccia “buona” (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne! – in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro)”.
Un allevamento o un mattatoio “ottimali” sono, in realtà, un controsenso. Non possono esistere. E’ come se ci fossero stati campi di concentramento in cui gli internati venivano trattati “bene” per essere meglio inceneriti.
Come Guido Ceronetti, antiretore per eccellenza, ha constatato, “anche solo la vista di vagoni carichi di creature sofferenti dovrebbe lasciare qualche traccia (…). Chi sa questo e guarda anche solo per una volta gli occhi di un vitello dietro le sbarre, si sentirà – specie se ne è corresponsabile attraverso le sue abitudini alimentari – consciamente o inconsciamente colpevole, offeso nella sua umanità. Alla lunga, però, un comportamento che intuisce l’ingiustizia ma non fa nulla contro di essa rende malati e questa indifferenza nei confronti delle creature a noi affidate e della loro sofferenza è forse una malattia peggiore del morbo della mucca pazza, perché più diffusa”.
Non è ipocrita e mistificatorio, dunque, come è stato fatto recentemente sul Domenicale del Sole 24 Ore da parte di una “bioeticista”, utilizzare la foglia di fico del cosiddetto “benessere animale” per perorare meglio le “ragioni del mercato” (vale a dire dello sfruttamento)? E ancora: ha senso parlare di “biosicurezza” e “riduzione di lunghezza delle filiere” se, poi, la fine per l’animale è ugualmente segnata, l’esito è sempre tragicamente lo stesso?

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Il latte, le uova. Fare breccia nell’ottundimento generale

di Francesco Pullia

Quando si toccano “punti sensibili”, nevralgici, come ad esempio quello dell’alimentazione, emerge tutto il sostrato di violenza pregiudiziale che ci portiamo dentro come retaggio di un sistema fondato sul dominio di una specie nei confronti di un’altra.
Mi è capitato di recente di ricevere la scomposta reazione di un redattore di un settimanale ritenuto “di sinistra” nei confronti di un articolo in cui, nero su bianco, accennavo a quanta sofferenza si celi nella produzione industriale di latte e di uova.
Di solito, si pensa che un “buon” bicchiere di latte, sì, “proprio quello della Lola”, non scaturisca da sfruttamento e non rientri in quello che insisto a chiamare il “nazismo quotidiano” da cui siamo assediati. Non è così. Anche il consumo di latte implica dolore, sopraffazione, sterminio.
Il latte deriva, infatti, da mucche inseminate artificialmente destinate al macello all’età di cinque anni, non appena cioè diminuisce la loro capacità produttiva.
Dall’età di circa due anni, trascorrono in gravidanza nove mesi ogni anno. Una volta nati, i vitelli vengono strappati alla madre poco dopo la nascita, perché non ne bevano il latte, e rinchiusi in minuscoli box, talmente stretti da non avere lo spazio per distendersi e dormire. Alimentati con una dieta inadeguata concepita appositamente per renderli anemici e far sì che la loro carne sia bianca e tenera (come piace ai consumatori), sono infine destinati alla “soluzione finale”, al mattatoio.
Le mucche vengono, invece, munte per mesi, durante i quali sono costrette a produrre circa quaranta litri di latte al giorno, una quantità pari a dieci volte l’ammontare di quello che sarebbe stato necessario, in natura, per nutrire i vitellini. Non sorprende, quindi, che ogni anno oltre un terzo di loro sia soggetto a mastiti o altre infezioni, a causa della continua mungitura meccanica, nonché ad acidosi. Sono, dunque, pesantemente imbottite di antibiotici.
A quasi sei anni, molte di loro arrivano alla macellazione così esauste da non riuscire nemmeno a stare in piedi. Vengono, allora, condotte di peso. Se, infatti, muoiono all’interno dell’azienda, l’allevatore è obbligato a provvedere, a proprie spese, allo smaltimento della carcassa,  dal momento che non è possibile far entrare nella filiera alimentare umana  – cioè nel  ciclo produttivo della carne – un animale deceduto per malattia.
Negli ultimi tempi, è venuto alla ribalta il caso delle “mucche a terra”. Impossibilitate a muoversi, sono trascinate con catene o funi, legate a una o a due zampe, spinte sui camion con pale di trattori, sollevate e scaricate, dopo essere state imbracate sommariamente.
Buono e naturale il “latte della Lola”, non è vero?
Sorte migliore non spetta certamente alle galline ovaiole.
Stando alla direttiva comunitaria 74 del 1999, le loro condizioni sarebbero sensibilmente migliorate il 31 dicembre dello scorso anno. Dal primo gennaio 2012, infatti, le galline destinate alla produzione di uova non avrebbero più dovuto conoscere gabbie “a batteria”, ma sarebbero state allevate a terra, all’aperto, in posti maggiormente spaziosi, con tanto di nido, lettiera, posatoio e zona graffi per le unghie. Da un’indagine della Commissione europea risulta, invece, che circa cinquanta milioni su 325 milioni di galline ovaiole continuano a versare in condizioni illegali. Soltanto in Italia se ne sono contate, in agosto, ventotto milioni. Stipate in gabbie asfittiche impilate una sopra l’altra, in spazi di pochi metri quadri, più piccoli di un foglio A4, hanno fratture alle ossa, disformismo, osteoporosi. Non possono aprire le ali, appollaiarsi, deporre uova in un nido. I pulcini maschi, appena nati, vengono separati dalle femmine, triturati vivi, smaltiti come rifiuti o farine di carne, perché ritenuti “improduttivi”… 
Stressate da ventilazione e luce forzata, costrette a covare il più possibile, le galline sono talmente esasperate da presentare comportamenti di tipo violento e mangiarsi tra loro. Per questo, gli allevatori tagliano loro il becco e somministrano tranquillanti. Purtroppo, la stessa nuova direttiva consente il “debeccaggio” (cioè la spuntatura del becco) per prevenire sia il cannibalismo che la plumofagia (patologia comportamentale che spinge gli uccelli in cattività a strapparsi le penne o a strapparle ai loro compagni) purché la mutilazione sia effettuata da “personale qualificato” (ve lo immaginate?) su pulcini di età inferiore ai dieci giorni di vita.Le uova provenienti da allevamenti in batteria possono essere facilmente riconosciute controllando il primo numero del codice posto sull’uovo: 3 per le galline in batteria, 2 per le galline allevate a terra, 1 per quelle allevate all’aperto, 0 per le uova biologiche da prediligere in assoluto se ancora, come sarebbe meglio, non abbiamo eliminato questo alimento dal nostro regime alimentare.
Vivere senza uova si può e bene così come senza latte d’origine animale.
Il latte di soia, specie quello addizionato con il calcio, è a questo proposito buonissimo e molto nutriente. Tra i diversi tipi di latte vegetale, è quello con più elevato contenuto proteico (3 g. di proteine ogni 100 millilitri, quasi alla stessa stregua del latte vaccino intero, che ne contiene 3,3 g.). Essendo derivato dalla soia, che con gli altri legumi (come fagioli, lenticchie e ceci) rappresenta una delle maggiori fonti di proteine vegetali a nostra disposizione, è inoltre ricco di vitamina E e di acidi grassi poli-insaturi benefici per l’organismo. Ma non è l’unico d’origine vegetale. Non è difficile trovare anche quello di riso e d’avena.
Quanto ai formaggi, il tofu (ricavato dal latte di soia) è un ottimo sostituto e lo si può trovare ormai in tante varianti.

Francesco Pullia

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