Franco Pinerolo: “La controriforma del mercato del lavoro” – Ed il nostro pane quotidiano?….
IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO
(Documento pubblicato in 3 parti):
1) ARTICOLO 18: MOLTA FLEX POCA SECURITY
2) LA RIFORMA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI È UNA RIDUZIONE DELLE PROTEZIONI SOCIALI
(Quando l’imperativo è il risparmio, la persona umana non importa più?)
3) PER I LAVORATORI PRECARI ED ATIPICI CAMBIA POCO
1) ARTICOLO 18: MOLTA FLEX POCA SECURITY
Il significato dell’art. 18 consisteva nel diritto della lavoratrice e del lavoratore di essere reintegrati nel posto di lavoro da parte del Giudice quando veniva accertata l’illegittimità del licenziamento ordinato dal datore di lavoro. Grazie alla mobilitazione sviluppatesi in queste settimane nel Paese è stato fatto solo un primo, piccolo passo avanti rispetto alla drastica modifica proposta in un primo tempo dalla Ministra Fornero, e la soluzione trovata per i licenziamenti economici individuali è suscettibile ancora di ulteriori miglioramenti in Parlamento per quanto concerne alcune parti del testo, dato che rappresenta un complicato percorso che difficilmente potrà portare al reintegro per il lavoratore illegittimamente licenziato per motivi economici, come ha ammesso perfino lo stesso presidente del Consiglio Monti, che ha dichiarato il reintegro “riferito a casi molto estremi ed improbabili”.
LICENZIAMENTO PER MOTIVI ECONOMICI PLURIMI (non più di 4 nell’arco di 120 giorni)
Nel disegno di legge, per i licenziamenti economici che non siano “manifestamente insussistenti” è previsto solo l’indennizzo, da 12 a 24 mensilità. In pratica l’azienda licenzierebbe il lavoratore “per motivi economici”; entro 7 giorni la Direzione Territoriale del Lavoro convoca azienda e lavoratore per la “conciliazione obbligatoria”, che ha per obiettivo la determinazione di un indennizzo condiviso da entrambe le parti; se non c’è l’accordo il lavoratore può ricorrere al Giudice il quale, con rito abbreviato, dovrà valutare se la motivazione economica sia valida e non nasconda in realtà intenzioni “discriminatorie”. Il Giudice però non può entrare nel merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive del datore di lavoro che licenzia, e la riforma aggiunge che se lo fa, la sua sentenza può essere impugnata. Se il Giudice non troverà motivi per contestare la causale scelta dall’azienda, darà il via libera al licenziamento e il lavoratore perderà anche l’indennizzo.
L’aspetto davvero singolare di questo disegno di legge è che se il datore di lavoro non riesce a giustificare l’esistenza del motivo economico, e il licenziamento è “illegittimo”, mentre prima la regola era ordinare il reintegro, adesso il Giudice condanna al pagamento di una indennità, da 12 a 24 mesi di stipendio e non può ordinare il reintegro, anche se la ragione economica non è giustificata. È palesemente una norma che ne premia l’uso disinvolto da parte di imprenditori con pochi scrupoli: se il datore di lavoro non riesce a provare un motivo per licenziare e il Giudice stabilisce che il licenziamento è infondato, perché mai non si dovrebbe essere automaticamente reintegrati sul posto di lavoro? Sembra un assurdità, una bestemmia, ma in effetti è così. Il legislatore ha previsto dunque un modo confuso e scorretto di regolarsi di fronte a un atto giudicato illegittimo, il cui riconoscimento dovrebbe ripristinare come logica conseguenza lo stato antecedente. Sarebbe dunque lecito aspettarsi che il testo del disegno di legge subisca una riscrittura in ambito parlamentare.
Nel caso invece di “illegittimità del licenziamento per manifesta insussistenza”, l’onere della prova si sposta sul lavoratore, che, in un nuovo processo, dovrà farsi carico di assumere una pletora di psicologi, investigatori, ricercatori, per dimostrare la «manifesta insussistenza», cioè un motivo chiaro ed evidente: in pratica deve dimostrare che si ricada nella discriminazione, o che l’antipatia da parte del datore di lavoro sia stata mascherata da una ragione economica. Inoltre, secondo il testo, il Giudice anche nel caso di accertata e riconosciuta la «manifesta insussistenza» non è obbligato, ma «può» ordinare il reintegro, cioè esso non scatta automaticamente. parola
Anche in questo caso sarebbe d’uopo che il Parlamento intervenisse, togliendo l’insensata dicitura di “manifestamente” insussistente riferita al fatto posto alla base del licenziamento per motivi economici, perchè essa è incomprensibile, assurda e suscettibile di interpretazione, e come tale da eliminare: non è credibile infatti che avvenga, perché sarebbe come dire, ad esempio, che il datore di lavoro abbia portato a ragione del licenziamento la chiusura di un esercizio commerciale che è invece tuttora aperto, o un passivo del bilancio, che invece indica un attivo, e così via. Parimenti appare del tutto ragionevole cancellare il termine “può” nell’ordinare il reintegro illegittimo, sostituendolo con il termine “deve”, essendo ormai acclarata ed accertata dal Giudice l’illegittimità del licenziamento. Non si comprende infine, perché debba essere sanzionata con semplice indennizzo l’azienda, in caso di licenziamento illegittimo, quando vi sia presenza di vizi formali di procedura o di carenza di motivazione, dato che sarebbe molto più ragionevole attendersi, nei casi in questione, il reintegro del lavoratore.
Alcune considerazioni:
a) l’articolo 18 non è la causa della precarietà esistente
1) è dimostrato dal fatto che nelle aziende fino a 10 dipendenti, dove non vige l’art. 18 e non c’è il sindacato, nel 2010 su 332.620 assunzioni solo 112.910 (il 33%) erano a tempo indeterminato, mentre le altre erano tutte tempi determinati e stagionali.
2) Il tasso degli assunti a tempo indeterminato, esclusi gli stagionali, nelle aziende sotto i 10 dipendenti, è poi quasi identico a quello delle imprese con oltre 500 dipendenti (il 47% nelle microimprese contro il 46,6% nelle grandi). Se aggiungiamo gli stagionali, la precarietà nelle imprese dove non vige lo statuto dei lavoratori con il suo art. 18 sale addirittura a livelli nettamente superiori a quello delle grandi imprese! (v. Patta)
La realtà quindi è che l’occupazione cresce o diminuisce, non a causa dell’articolo 18, ma secondo l’andamento del ciclo economico e secondo le leggi sul mercato del lavoro approvate nel frattempo (pacchetto Treu e legge 30 Biagi)..
b) Come farà il Giudice a dimostrare l’insussistenza senza indagare nell’economia dell’azienda? Il disegno di legge rischia di essere fortemente lesivo dell’autonomia del Giudice nella decisione relativa al possibile reintegro. Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento oggi è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza alcuna ingerenza da parte del Giudice circa la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, in quanto questi sono considerati espressione della libertà di iniziativa economica dell’ imprenditore. Bisognerebbe consentire invece al Giudice di verificare la genuinità della motivazione economica addotta.
c) Il disegno di legge dice poi che l’indennità di 12-24 mesi si applica in “tutti gli altri casi di illegittimità che non siano manifesti”. Qui il problema più importante è quello di sapere quali sarebbero questi ulteriori casi, e soprattutto se essi comprendono le ipotesi di cosiddetto licenziamento “speculativo”, non connesso ad una difficoltà aziendale di tipo economico o organizzativo, ma solo alla ricerca di un maggior profitto a scapito del lavoratore.
d) L’articolo 18 è anche un’arma preziosissima per il precario che nei fatti svolge un lavoro da dipendente: Senza l’articolo 18 il lavoratore non può denunciare il datore di lavoro che usa in maniera truffaldina il lavoro precario come lavoro subordinato e quindi non può farsi assumere a tempo indeterminato (v. l’esperienza dei call center, dove grazie al ministro del governo Prodi, Cesare Damiano, in molti furono assunti a tempo pieno).
e) la possibilità di licenziare esiste già ampiamente in Italia:
a) In base alle leggi esistenti (art. 30 della legge 183 del 2010, legge 604 del 1966 e 223 del 1991) e ai Contatti Collettivi Nazionali, i datori di lavoro possono licenziare, riducendo il personale e mettendo in mobilità i lavoratori. La legge legge 604 del 1966 prevede che il licenziamento individuale può essere liberamente intimato sia per motivi oggettivi di carattere economico (ragioni tecniche organizzative e produttive, nelle quali sono normalmente richiamati motivi economici, crisi, calo di domanda, diminuzione dei costi, riorganizzazione, ecc.) sia per motivi soggettivi dovuti al notevole inadempimento agli obblighi contrattuali del lavoratore o ad una colpa grave costituente “giusta causa” (le mancanze disciplinari del lavoratore). Vi è poi la possibilità, ampia ed incondizionata, di riduzione del personale con i licenziamenti collettivi (legge 223/91): tale normativa richiede solamente il rispetto di una procedura e di una verifica giudiziaria per eliminare tutti i lavoratori che l’azienda ritiene in esubero.
b) i licenziamenti per riduzione di personale avvengono quotidianamente da parte di aziende con meno di 16 dipendenti, che non hanno altro onere che quello di pagare un’indennità di preavviso molto più bassa di quella prevista in altri Paesi europei: solo ove un Giudice accerti che le motivazioni addotte non sono vere, dovrà pagare un’ulteriore indennità, comunque non superiore a sei mensilità
c) nel 2010, sono stati estromessi in forma lecita dal mercato del lavoro (parzialmente o in maniera definitiva tramite cassa integrazione, disoccupazione, mobilità) circa 4 milioni di lavoratori, un terzo del totale iscritto all’istituto previdenziale: il totale è consultabile nel Bilancio 2010 dell’Inps
d) Se guardiamo le imprese sopra i 500 dipendenti che, secondo alcuni, sarebbero il santuario del posto fisso, apprendiamo dall’Istat che il turn over è stato, nel 2010, mediamente di 113 assunti a fronte di 122 in uscita.
e) L’Italia (con il Belgio) è l’unico paese nel quale la legge non garantisce un periodo minimo di preavviso, in molti ordinamenti superiore al mese. L’Italia è uno dei pochi paesi europei che non riconosce alcuna forma di indennizzo economico per chi è licenziato legittimamente
f) La giurisprudenza italiana degli ultimi anni ha progressivamente “liberalizzato” il licenziamento per giustificato motivo oggettivo; un orientamento che il governo Berlusconi ha inteso rafforzare con la norma del “Collegato lavoro” che preclude al Giudice di estendere il proprio controllo “al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro” (art. 30, co. 1,l. n. 183/2010).
g) In Italia c’è un vero “discount” delle braccia l’80% dei pochi nuovi assunti ha un contratto a termine di quale altra flessibilità in uscita hanno bisogno le imprese?
f) più libertà di licenziare non porta le imprese ad assumere
a) Su tredici ricerche realizzate, nove di esse danno risultati indeterminati, tre segnalano che la maggior flessibilità del lavoro riduce l’occupazione e aumenta la disoccupazione, e una soltanto segnala che la flessibilità riduce la disoccupazione (cfr. T. Boeri and J. van Ours, The economics of imperfect labor markets, Princeton University Press 2008).
b) Perfino O. Blanchard, del Fondo Montario Internazionale, dopo un’accurata disamina dei principali lavori empirici sul tema, giunge a una conclusione secca: «le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi» (O. Blanchard, “European unemployment: the evolution of facts and ideas”, Economic policy 2006). v. Emiliano. Brancaccio.
c) È la domanda aggregata di merci e servizi che manca, arrivano poche commesse, i dipendenti che già ci sono bastano e avanzano, c’è la crisi dei consumi: ecco perché non ci si lancia in nuove assunzioni.
d) dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità (licenziabilità) in Italia e che l’ha resa superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati. Anche la legge 30 “Biagi” è stata approvata col fine di avere più occupazione e meno precarietà e gli esiti disastrosi sono ora sotto gli occhi di tutti.
e) Non esiste un solo precedente, nella storia dell’industria italiana, in cui la flessibilità nel mercato del lavoro abbia portato a un più alto senso di responsabilità delle imprese. Non c’è alcuna ragione logica per pensare che le imprese, una volta libere di licenziare, acconsentiranno poi volentieri ad assumere
g) con la crisi il problema è fermare i licenziamenti, non facilitarli I dati ISTAT segnalano, nello scorso anno, una riduzione di un milione di giovani occupati rispetto al 2008: se a questo dato aggiungiamo l’aumento della cassa integrazione del 21% nel marzo 2012 e il blocco delle pensioni, che ha impedito a 800 mila giovani di entrare nel mondo del lavoro nei prossimi tre anni, si comprende a quale ecatombe sociale siamo di fronte. Il tema principale dovrebbe essere la crescita, ma su questo il governo Monti non c’è.
h) l’indice di protezione contro i licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato, elaborato dall’Ocse è in Italia inferiore a quello dei nostri principali concorrenti Francia e Germania (rispettivamente 1,69 contro 2,60 e 2,85 nel 2008). La scarsa dinamica della produttività non è dunque imputabile a lavoratori perché protetti dall’art. 18, come dimostrano i dati, ma semmai alla scarsa innovazione tecnologica e organizzativa e al mancato adeguamento della specializzazione produttiva.
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Con il sistema vigente, una volta accertata l’illegittimità dell’allontanamento del lavoratore, il Giudice dispone il reintegro del lavoratore stesso e condanna il datore di lavoro al pagamento di tutti gli stipendi dalla data di estromissione dal servizio e sino a quella della reintegra. Con la riforma recentissimamente cambiata, invece, il giudice, una volta accertata l’illegittimità dell’allontanamento del lavoratore, può decidere il reintegro o la sanzione economica all’Azienda senza reintegro, nonostante l’ingiustificato motivo. Decide il reintegro per insussistenza dei fatti contestati ovvero perchè il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base «delle previsioni della legge, dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili». Il giudice avrà la facoltà di decidere in base al criterio della proporzionalità dell’infrazione disciplinare commessa rispetto alla sanzione che deve essere applicata, come prevede l’articolo 2106 del Codice Civile. Ciò gli consente una valutazione discrezionale della proporzionalità della sanzione applicata (cioè il licenziamento) rispetto all’infrazione commessa..
Alcune considerazioni:
a) Che il legislatore abbia previsto la sanzione economica all’Azienda senza reintegro, nonostante l’ingiustificato motivo, appare un’aberrazione giuridica a tutti gli effetti, oltre che una palese ingiustizia nei confronti del lavoratore.
b) Se dovesse passare la nuova normativa, sarebbe il Giudice a decidere tutto e dovrebbe essere il lavoratore a dimostrare che il licenziamento è così particolarmente ingiusto, da richiedere la sanzione della reintegra. Insomma, si avrebbe una sorta di inversione dell’onere della prova. Oggi è il datore di lavoro che deve dimostrare che ha licenziato giustamente, domani sarebbe il lavoratore a dover dimostrare che è stato ingiustamente licenziato. Siamo allo stravolgimento definitivo del sistema di tutele garantito dallo Statuto dei lavoratori.
c) Sino ad oggi un lavoratore licenziato illegittimamente e reintegrato per ordine del Giudice percepiva tutte le mensilità dalla data dell’illegittimo licenziamento sino a quella della reintegra. Questo, ovviamente, costituiva un grosso deterrente per le imprese che, prima di procedere ad un licenziamento, ponderavano attentamente le eventuali conseguenze. Da domani non sarà più così, quindi diventa meno rischioso e più economico il licenziamento disciplinare rispetto a prima. Ben più ragionevole sarebbe una norma che prevedesse l’obbligo per il datore di lavoro di versare i contributi per l’intero periodo, a prescindere dalla copertura offerta dalla indennità di disoccupazione.
LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI
Viene mantenuto il reintegro nel posto di lavoro.
a) I licenziamenti discriminatori sono vietati già oggi da qualsiasi convenzione, legge, Costituzione, italiana, o internazionale. Ed è uno dei tanti falsi del governo che con questo provvedimento il divieto sia esteso sotto i quindici dipendenti, perché c’è sempre stato, grazie alla legge 108 del 1990, ma non ha mai agito per la semplice ragione che nessun datore di lavoro è così fesso da licenziare per esplicita discriminazione personale, ideologica, razziale, di fede religiosa, di appartenenza ad un sindacato, di lingua o di sesso, di handicap, di età.
b) i casi in cui un Giudice abbia potuto accertare la natura discriminatoria del recesso sono rarissimi. L’onere di dimostrare l’intento discriminatorio incombe infatti sul lavoratore, che in un atto individuale non può neppure fare ricorso ai dati statistici, utilizzabili invece nelle sole discriminazioni collettive.
LICENZIAMENTI COLLETTIVI
L’art. 15 del disegno di legge tratta i licenziamenti collettivi, introducendo un gravissimo peggioramento della disciplina. Attualmente per le violazioni procedurali la sanzione per l’Azienda sarebbe unicamente quella economica, mentre la sanzione di reintegra sarebbe limitata alla violazione dei soli criteri di scelta dei licenziati. Cosa accade ora? Per questo tipo di licenziamenti ci devono essere due comunicazioni da parte del datore di lavoro: quella in cui annuncia la decisione generale, con il numero dei licenziati, e poi quella finale, grazie alla quale il singolo conosce i criteri per i quali è finito tra i licenziati. Ebbene, la prima comunicazione, anche se scorretta, non sarà più impugnabile per errori procedurali, perché si intende «sanata dall’accordo sindacale» eventualmente raggiunto. La seconda è impugnabile dal singolo lavoratore, ma l’errore procedurale non darà più luogo al reintegro, ma solo a un indennizzo da 12 a 24 mensilità. Il reintegro c’è solo nella rara eventualità che il lavoratore riesca a indicare un collega che avrebbe dovuto essere licenziato al posto suo: un’assurda guerra tra poveri! Il rendiconto dell’utilizzo dei criteri di scelta dei licenziati è un documento delicatissimo, sulla cui regolarità si è molto spesso giocata la sorte delle procedure di esubero.
Se non venisse modificato questo disegno di legge, il datore di lavoro avrebbe convenienza a fare 5 o più licenziamenti invece di 4, ossia un licenziamento collettivo al posto di 4 licenziamenti individuali, perché così facendo si sottrarrebbe al rischio della reintegra nel posto di lavoro, rientrando nella più permissiva disciplina dei licenziamenti collettivi.
IL PUBBLICO IMPIEGO
L’articolo 2 del Disegno di legge chiarisce: “Le disposizioni della presente legge costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”. Le nuove norme, dunque, si estendono anche ai dipendenti di Ministeri, Enti locali ecc. Il secondo comma specifica tuttavia che sarà il Parlamento a conferire apposita delega al ministro per la P. a., Patroni Griffi, sentiti i sindacati, per individuare e definire “gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione” tra la nuova normativa e le leggi speciali che sinora hanno “tutelato” il comparto pubblico.
Attualmente tutte le amministrazioni pubbliche, in un modo o nell’altro, hanno applicato lo Statuto dei lavoratori, quindi se l’art. 18 viene cambiato ne assumono automaticamente anche le modifiche. Lo Statuto dei lavoratori (legge 300/70) è stato infatti recepito dal testo unico sul pubblico impiego oltre dieci anni fa (legge 165/2001) anche se le sue applicazioni passano per una disciplina normativa diversa da quella del settore privato.
CONCLUSIONE ARTICOLO 18
Il punto centrale della questione è l’illegittimità del licenziamento: se il licenziamento e’ illegittimo la sanzione deve essere il reintegro, e non ci possono essere sanzioni differenti. A uguale reato uguale sanzione, perché questo prevedono la Costituzione e la stessa Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che esige (art. 30 Carta di Nizza) la tutela dei lavoratori contro ogni licenziamento ingiustificato. Al di fuori della giusta causa o del giustificato motivo, il licenziamento è nullo: lo prevede il Codice civile, la legge n. 604 del 15 luglio 1966 ma anche il diritto internazionale (Convenzione OIL n. 158/82). Il lavoro non è una concessione dell’imprenditore, ma il fondamento della Repubblica Italiana, che non può essere semplicemente lasciato all’onestà del datore di lavoro.
Franco Pinerolo