Art. 18 – No alla soppressione per avvantaggiare i ladri del nostro futuro… – “Monti Mario, ritornatene da dove sei venuto.. che è meglio!”
Tanti motivi per mantenere intatto l’articolo 18
Al centro delle divergenze negli incontri tra governo e sindacati sul mercato del lavoro c’è soprattutto la revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che tutela dai licenziamenti senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti.
Il Ministro Fornero ne proporrebbe una modifica peggiorativa introducendo il licenziamento individuale per ragioni economiche, con indennizzo monetario al posto del reintegro se ritenuto illegittimo dal giudice. L’articolo 18 e l’obbligo di reintegro da parte dell’impresa resterebbe valido solo per licenziamenti legati ad atti discriminatori (per motivi politici, culturali, religiosi, ecc.). Le nuove regole sui licenziamenti si applicherebero inizialmente ai nuovi assunti ma non è escluso che, dopo un paio d’anni, siano estese a tutti i lavoratori,.
Monti e la sua compagine governativa dovrebbero riflettere sull’errore che si apprestano a compiere, per tanti motivi.
- UNA NORMA DI CIVILTÀ
- LE VERA EMERGENZA È LA PRECARIETA’, NON I LICENZIAMENTI FACILI
- LA LIBERTÀ DI LICENZIAMENTO ESISTE GIÀ
- UNA MODIFICA DELL’ART. 18 È DANNOSA PER LA PRODUTTIVITÀ GENERALE DELL’IMPRESA, PER LA CRESCITA E PER LE ESPORTAZIONI
- GLI INDUSTRIALI SONO CONTRARI A TOCCARE L’ART. 18
- NON È VERO CHE LE PICCOLE IMPRESE SOTTO I 15 DIPENDENTI NON SI INGRANDISCONO A CAUSA DELL’ART. 18
- UNA MODIFICA DELL’ART. 18 È DANNOSA PERCHÈ PROVOCA UNA MAGGIORE MODERAZIONE SALARIALE, QUINDI RECESSIONE
- UNA MODIFICA DELL’ART. 18 SIGNIFICA AVALLARE, DI FATTO, LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI
- COMPORTERÀ UN INDEBOLIMENTO GENERALE DELLE TUTELE DA PARTE DEI LAVORATORI
- IN ITALIA CI SONO GIÀ TROPPI DISOCCUPATI
- LA MODIFICA DELL’ARTICOLO 18 NON SERVE ALLA CRESCITA NÈ A RICHIAMARE CAPITALE DALL’ESTERO.
- PIÙ LIBERTÀ DI LICENZIARE NON PORTA LE IMPRESE AD ASSUMERE
- L’EUROPA E L’ARTICOLO 18
- L’UNICA MANUTENZIONE UTILE PER L’ART. 18 È RENDERE PIÙ RAPIDI I PROCESSI
UNA NORMA DI CIVILTÀ. L’art.18 dello Statuto dei lavoratori è una norma di civiltà inderogabile che afferma il valore del lavoro su cui la Costituzione italiana fonda il senso della nostra Repubblica: cancellare questo articolo vorrebbe dire, di fatto, uscire dallo spirito della Costituzione. La platea effettiva di lavoratori coperti dall’articolo 18 dello Statuto sono la prova dell’importanza di questo strumento anche in termini numerici: quasi due lavoratori su tre sono tutelati da questo provvedimento, pari al 65% dei dipendenti italiani, ovvero 7,8 milioni di operai e impiegati su quasi 12 milioni presenti in Italia.
LE VERA EMERGENZA È LA PRECARIETA’, NON I LICENZIAMENTI FACILI
a) Dal 1998 al 2008 il numero di primi contratti a tempo indeterminato si è ridotto dal 55 al 40 per cento, una riduzione costante già prima della crisi.
b) L’ultimo studio dell’Istat sull’occupazione nel quinquennio 2005-2010, informa che, nel nostro Paese, su cento nuove assunzioni oltre settanta sono a tempo determinato, precisamente il 71,5%, e quasi un lavoratore su due (il 47,3%) esce dalle grandi imprese proprio per la scadenza dei termini del contratto.
c) Dalle tabelle Ocse pubblicate a gennaio 2012 arrivano dei dati che posizionano l’Italia tra i paesi più flessibili al mondo in ambito lavorativo e di licenziabilità. Secondo gli indici dell’Ocse per un imprenditore italiano e’ molto più facile licenziare un dipendente di quanto non lo sia per un imprenditore di un qualunque altro Paese europeo. L’indice di flessibilità per i lavoratori a tempo indeterminato si attesta infatti all’1,77, di molto al di sotto della media mondiale che e’ di 2,11. I dati OCSE dicono inoltre che su 100 occupati solo 14 sono a tempo indeterminato: siamo dunque un Paese dai licenziamenti facili e dalla diffusa precarietà, come ben sanno i lavoratori: altro che eccessiva rigidità!
LA LIBERTÀ DI LICENZIAMENTO ESISTE GIÀ
a) In base alle leggi esistenti (art. 30 della legge 183 del 2010, legge 604 del 1966 e 223 del 1991) e ai Contatti Collettivi Nazionali, i datori di lavoro possono licenziare, riducendo il personale e mettendo in mobilità i lavoratori. La legge legge 604 del 1966 prevede che il licenziamento individuale può essere liberamente intimato sia per motivi oggettivi di carattere economico (ragioni tecniche organizzative e produttive, nelle quali sono normalmente richiamati motivi economici, crisi, calo di domanda, diminuzione dei costi, riorganizzazione, ecc.) sia per motivi soggettivi dovuti al notevole inadempimento agli obblighi contrattuali del lavoratore o ad una colpa grave costituente “giusta causa” (le mancanze disciplinari del lavoratore). Vi è poi la possibilità, ampia ed incondizionata, di riduzione del personale con i licenziamenti collettivi (legge 223/91): tale normativa richiede solamente il rispetto di una procedura e di una verifica giudiziaria per eliminare tutti i lavoratori che l’azienda ritiene in esubero.
b) i licenziamenti per riduzione di personale avvengono quotidianamente da parte di aziende con meno di 16 dipendenti, che non hanno altro onere che quello di pagare un’indennità di preavviso molto più bassa di quella prevista in altri Paesi europei: solo ove un giudice accerti che le motivazioni addotte non sono vere, dovrà pagare un’ulteriore indennità, comunque non superiore a sei mensilità
c) nel 2010, sono stati estromessi in forma lecita dal mercato del lavoro (parzialmente o in maniera definitiva tramite cassa integrazione, disoccupazione, mobilità) circa 4 milioni di lavoratori, un terzo del totale iscritto all’istituto previdenziale: il totale è consultabile nel Bilancio 2010 dell’Inps
d) L’Italia (con il Belgio) è l’unico paese nel quale la legge non garantisce un periodo minimo di preavviso, in molti ordinamenti superiore al mese. L’Italia è uno dei pochi paesi europei che non riconosce alcuna forma di indennizzo economico per chi è licenziato legittimamente
e) La giurisprudenza italiana degli ultimi anni ha progressivamente “liberalizzato” il licenziamento per giustificato motivo oggettivo; un orientamento che il governo Berlusconi ha inteso rafforzare con la norma del “Collegato lavoro” che preclude al giudice di estendere il proprio controllo “al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro” (art. 30, co. 1,l. n. 183/2010).
Qualche illustre professorone della Bocconi o giuslavorista spieghi ora la necessità di modificare l’art. 18, dopo queste verità oggettive. Nasce invece legittimamente il sospetto che il cambiamento di questo articolo sia solo un bieco pretesto antisindacale.
UNA MODIFICA DELL’ART. 18 È DANNOSA PER LA PRODUTTIVITÀ GENERALE DELL’IMPRESA, PER LA CRESCITA E PER LE ESPORTAZIONI
Come abbiamo visto il grado di flessibilità (precarietà) del sistema economico italiano è aumentato in modo rilevante negli ultimi vent’anni, ma non è stato accompagnato da una corrispondente crescita della produttività. Infatti introducendo nuova flessibilità in uscita e in entrata, le imprese hanno perso la spinta a innovare tecnologicamente e ad aumentare la quota di capitale tecnico per addetto per mantenere alto il margine di profitto, il quale viene invece garantito dai bassi salari dovuti alla precarietà del lavoro. Dunque tra aumento della precarietà e diminuzione della crescita e delle esportazioni, passando attraverso una precipitazione della qualità dei prodotti e quindi di competitività del sistema nel suo complesso, vi è una precisa relazione di causa ed effetto riscontrabile anche empiricamente. Tutto ciò ci fa capire quanto sia inutile e controproducente una modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Soltanto una destra stolta può accanirsi nel puntare a recuperare competitività delle imprese e occupazione con l`arretramento delle condizioni e dei diritti dei lavoratori. Senza contare che l’allentamento dell’art. 18 introdurrebbe una logica del conflitto che difficilmente gioverebbe al sistema produttivo italiano.
GLI INDUSTRIALI SONO CONTRARI A TOCCARE L’ART. 18
a) Un grande sondaggio condotto fra i manager delle imprese di tutt’Italia sui problemi che bloccano la crescita, pubblicato a gennaio, ha dato un risultato del tutto opposto rispetto alle idee di Fornero e Monti: il 99 per cento ha indicato diverse cause, e nessuna l’articolo 18.
b) Anche per Giorgio Squinzi, vice presidente di Confindustria per l’Europa, «la licenziabilità dei dipendenti è forse l’ultimo dei nostri problemi».
c) Un industriale come Carlo De Benedetti ha dichiarato che l’art. 18 non gli è mai servito nella gestione d’impresa.
d) Per le medie e grandi imprese che puntano sugli investimenti, sul progresso tecnologico e sulle competenze, l’articolo 18 non è ragione di ostacolo: le dirigenze tengono molto al loro capitale umano.
e) il lavoro stabile e competente aiuta le imprese nella qualità produttiva.
NON È VERO CHE LE PICCOLE IMPRESE SOTTO I 15 DIPENDENTI NON SI INGRANDISCONO A CAUSA DELL’ART. 18
a) Confindustria, in un sondaggio tra i propri aderenti ha rilevato che, fra le cause del mancato ampliamento delle aziende, gli imprenditori mettono al primo posto l’insufficienza delle domanda (segnalata dal 48,5 per cento del campione), seguita dalla mancanza di capitali (47,9), mentre gli ostacoli sindacali finiscono di gran lunga all’ultimo posto della classifica (con solo il 6,5 per cento).
b) Le piccole imprese con meno di 15 addetti non sarebbero avvantaggiate dalla modifica dell’articolo 18 in quanto la norma già le esclude dall’applicazione
c) Fra le piccole imprese, quelle micro che occupano meno di 10 addetti rappresentano il 95% del totale delle imprese, quindi è molto limitato il numero di quelle che arrivano vicino a 15 dipendenti.
UNA MODIFICA DELL’’ART. 18 È DANNOSA PERCHÈ PROVOCA UNA MAGGIORE MODERAZIONE SALARIALE, QUINDI RECESSIONE.
A causa della legge della domanda e dell’offerta, un eccesso di offerta di manodopera dovuta a maggiori licenziamenti determinati dall’art. 18, provocherà poi un abbassamento dei salari, quindi la domanda di merci diminuirà, e perciò ne risentirà anche la produzione e quindi l’occupazione e di conseguenza anche le entrate fiscali, per cui si avrà un generale aumento della recessione e della caduta del PIL. Con buona pace della tanto sbandierata “crescita” di cui si riempie la bocca il prof. Monti.
UNA MODIFICA DELL’ART. 18 SIGNIFICA AVALLARE, DI FATTO, I LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI
Togliere l’art. 18 per i soli “licenziamenti economici illegittimi” significa avallare, di fatto, i licenziamenti discriminatori. Se infatti le ragioni oggettive e soggettive invocate nei licenziamenti individuali non sono vere, un motivo sottostante c’è sempre, ma è inconfessabile e mascherato: è un motivo discriminatorio.
Nella esperienza giudiziaria i licenziamenti discriminatori (per razza, sesso, opinioni politiche e religiose, ecc.) sono sempre motivati con ragioni tecniche, organizzative e produttive, crisi economica, riduzione dei costi, ecc: non c’è nessun caso, tra i milioni di licenziamenti degli ultimi 40 anni, in cui il motivo é esplicitato: “Ti licenzio perché ebreo, donna, comunista, negro, cattolico, gay, sindacalista ecc.!”. Le sentenze che annullano i licenziamenti discriminatori sono per questo rarissime, anche perché l’onere di provare il motivo illecito è a carico del dipendente e questa è una “prova diabolica”
COMPORTERÀ UN INDEBOLIMENTO GENERALE DELLE TUTELE DA PARTE DEI LAVORATORI
a) Snellire le procedure di licenziamento attraverso licenziamenti per motivi economici illegittimi farà sì che tutti gli altri diritti, come il rispetto della professionalità, la tutela dal mobbing, la giusta retribuzione, il diritto ai contributi assicurativi e previdenziali, la tutela della integrità psico-fisica sul lavoro e dalle molestie sessuali, ecc. verranno poco o nulla tutelati: quale lavoratrice o lavoratore infatti si rivolgerebbe al Giudice per il loro riconoscimento se poi può perdere definitivamente il posto di lavoro per un “licenziamento per motivi economici ” anche se illegittimo?
b) l’attacco all’articolo 18 serve ad esercitare una pressione sul movimento sindacale, i cui attivisti entrano di forza nelle liste di licenziamento. Dunque avrebbe anche l’effetto di indebolire l’organizzazione dei lavoratori sui posti di lavoro, creando un sistema di relazioni industriali e di lavoro che esclude la possibilità di un movimento sindacale che tuteli gli interessi dei più deboli.
c) si introduce una «eccezione limitata», che poi si estende e diventa la norma. Era accaduto anche per i «contratti atipici», e poi per il «modello Pomigliano», che, si giurava sarebbe valso solo per lo stabilimento campano….
IN ITALIA CI SONO GIÀ TROPPI DISOCCUPATI
Il numero dei disoccupati in Italia è salito a 2 milioni 312 mila, , in aumento del 2,8% rispetto a dicembre 2011. Se aggiungiamo anche il numero degli scoraggiati che non cercano più lavoro ma lo vorrebbero, i quali, secondo l’Istat, sono 2,7 milioni, si arriva alla cifra astronomica di 5 milioni di individui! Per i giovani tra i 15 e i 24 anni il tasso dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è addirittura al 31,1%. Ci sono poi studi di Confindustria che stimano essere a rischio nel 2012 più di 200 mila posti di lavoro e 800 mila nuovi disoccupati. Nel pieno della crisi, con la manovra appena approvata che già colpisce duramente i lavoratori, ridurre loro anche questa forma di tutela sarebbe un incomprensibile atto di fanatismo ideologico ai limiti dell’irresponsabilità. E la beffa è che lo si proclama pure in nome dei giovani! E’ un’autentica follia. In una situazione di questo tipo occorrerebbero misure di segno opposto a quelle prospettate, come il blocco dei licenziamenti e della chiusura delle aziende, l’estensione della tutela dell’articolo 18 a chi non ce l’ha, piani industriali, politiche per lo sviluppo della domanda, ecc.
LA MODIFICA DELL’ARTICOLO 18 NON SERVE ALLA CRESCITA NÈ A RICHIAMARE CAPITALE DALL’ESTERO.
Se la crescita è scarsa e le aziende straniere non investono volentieri in Italia non è certo per timore dell’articolo 18, ma perché manca la domanda di beni e servizi, ci sono diffusi fenomeni di corruzione su ogni passaggio dei processi autorizzativi, si teme la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, c’è arretratezza di infrastrutture, conoscenza, formazione, tecnologia, ricerca, innovazione di prodotto, la piaga della criminalità organizzata è diffusa, il nostro sistema giudiziario è lento, lo Stato ritarda il pagamento delle forniture, il sistema fiscale è esagerato e andrebbe diminuito come fece a suo tempo Prodi col il cuneo fiscale, facendo costare meno il lavoro a tempo indeterminato e di più il lavoro precario; e poi viene dato scarso accesso al credito alle imprese, perché gli istituti bancari hanno ricevuto (loro sì!) una “paccata” di soldi dalla Bce al tasso dell’1%, ma anziché prestarlo a famiglie e imprese, lo hanno investito massicciamente in titoli di Stato, facendo scendere, per la legge della domanda e dell’offerta, il tasso di rendimento dei titoli di Stato e lo spread.
Sono vent’anni che si fanno profitti abbassando i salari e riducendo le tutele dei diritti, utilizzando il precariato a più non posso, e il risultato è che i ricavi le imprese li mettono nella speculazione finanziaria anzichè nell’innovazione tecnologica per migliorare la produttività che è diminuita; le esportazioni sono perciò calate, la disoccupazione è aumentata, il Pil non cresce più, il Paese nel suo complesso continua ad impoverirsi e si trasferiscono le conseguenze delle inefficienze delle imprese sull’intera collettività, aumentando di conseguenza il debito pubblico.
La crescita, pure quella tedesca, è il risultato anche di sistemi di gestione più democratici, di interventi pubblici, di disuguaglianze storicamente più basse, di livelli di istruzione più alti, di politiche industriali più oculate e maggiori investimenti in nuovi settori.
Non è la crescita a generare occupazione, ma esattamente il contrario, dunque a che serve una maggiore libertà di licenziamento?
PIÙ LIBERTÀ DI LICENZIARE NON PORTA LE IMPRESE AD ASSUMERE
a) Su tredici ricerche realizzate, nove di esse danno risultati indeterminati, tre segnalano che la maggior flessibilità del lavoro riduce l’occupazione e aumenta la disoccupazione, e una soltanto segnala che la flessibilità riduce la disoccupazione (cfr. T. Boeri and J. van Ours, The economics of imperfect labor markets, Princeton University Press 2008).
b) Perfino Blanchard, del Fondo Montario Internazionale, dopo un’accurata disamina dei principali lavori empirici sul tema, giunge a una conclusione secca: «le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi» (O. Blanchard, “European unemployment: the evolution of facts and ideas”, Economic policy 2006). v. Emiliano. Brancaccio.
c) È la domanda che manca, arrivano poche commesse, i dipendenti che già ci sono bastano e avanzano, c’è la crisi dei consumi: ecco perché non ci si lancia in nuove assunzioni.
d) anche la legge “Biagi” è stata approvata col fine di avere più occupazione e meno precarietà e gli esiti disastrosi sono ora sotto gli occhi di tutti.
e) Non esiste un solo precedente, nella storia dell’industria italiana, in cui la flessibilità nel mercato del lavoro abbia portato a un più alto senso di responsabilità delle imprese. Non c’è alcuna ragione logica per pensare che le imprese, una volta libere di licenziare, acconsentiranno poi volentieri ad assumere
L’EUROPA E L’ARTICOLO 18
a) la possibilità per il giudice di reintegrare un lavoratore illegittimamente licenziato non rappresenta affatto una peculiarità italiana, essendo prevista negli ordinamenti di altri 14 paesi dell’Unione Europea su un totale di 27
b) all’interno del Trattato di Lisbona c’è una norma che dice che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Dunque nessuna delle norme che sono contenute nella Carta può diminuire il livello di garanzia raggiunta all’interno di un singolo Stato. Se ci sono nazioni che hanno garanzie più forti, come noi per esempio, l’Europa non ci obbliga affatto a ridurne il livello.
c) In Germania c’è qualcosa di molto simile all’art. 18: l’imprenditore che voglia licenziare un dipendente deve comunicarlo al consiglio di azienda. Se il sindacato riterrà non fondato il provvedimento, il dipendente ha il diritto di rimanere al suo posto fino al termine del processo. Se poi il giudice stabilisce che effettivamente il licenziamento non era giustificato, l’imprenditore ha l’obbligo di reintegrare il dipendente in organico.
d) in Germania è largamente usata la flessibilità interna all’azienda, ovvero la riduzione dell’orario di lavoro per evitare la pioggia dei licenziamenti. E’ anche grazie a questo che la Germania ha avuto perfomances occupazionali anche dentro questa crisi
L’UNICA MANUTENZIONE UTILE PER L’ART. 18 È RENDERE PIÙ RAPIDI I PROCESSI
Il contenzioso, in caso di licenziamento, si dovrebbe concludere entro un termine massimo di tre mesi. Sui tempi del processo e’ interesse intervenire sia da parte dell’imprenditore sia del lavoratore, anche se le cause giudiziarie che riguardano l’art. 18 sono poche, in relazione alla forza lavoro, e i reintegri ordinati dal giudice vengono stimati, da più parti, in 5-600 unità l’anno.
CONCLUSIONE
Come si è visto, voler conservare diritti costituzionali non é bloccare le riforme o lo sviluppo economico, ma semplicemente mantenere un accettabile livello di civiltà, di coesione sociale, di garanzia,
L’obiettivo del governo Monti è invece quello di lasciare libero spazio all’arbitrio delle imprese, facendo compiere un salto di qualità alla ricattabilità di lavoratrici e lavoratori, per arrivare a un modello che unisca l`insicurezza a un sistema di contrattazione nordamericano e a salari cinesi. Insistere ancora sull’articolo 18 e’ inutile rispetto alle esigenze della nostra economia e alle reali necessità del nostro mercato del lavoro, e rappresenta la continuazione ideologica di una politica neoliberista e di destra che pensa di risolvere i problemi finanziari e della crescita colpendo tutele e stato sociale: un’idea raccapricciante di “modernità” del resto non nuova, perchè molto simile a quella di Berlusconi e Tremonti.
Monti, anche in questo, si rivela fedele esecutore delle politiche economiche suicide che la Germania e la BCE stanno imponendo a tutti i Paesi europei, fondate su sacrifici, privatizzazioni, riduzione dei diritti dei lavoratori e delle tutele sociali: politiche che stanno facendo piombare l’Europa e il nostro Paese in una nuova fase di recessione e disoccupazione.
CON LE GRANDI RICCHEZZE, CON LE BANCHE, LE ASSICURAZIONI E I PETROLIERI MONTI USA IL GUANTO DI VELLUTO, MA QUANDO SI TRATTA DI LAVORATORI E PENSIONATI VA AVANTI CON LA SCURE!
SE LA CGIL E GLI ALTRI SINDACATI NON RIESCONO A PORRE UN ARGINE ALLE MISURE NEFASTE DI QUESTO GOVERNO, SARANNO SEMPRE PIÙ FLEBILI LE TUTELE NEL MONDO DEL LAVORO E I SINDACATI SI RIDURRANNO A DIVENTARE UN GRANDE PATRONATO ASSISTENZIALE PRIVO DI CAPACITÀ CONTRATTUALE E DI DIFESA NEI CONFRONTI DEL MONDO DEL LAVORO.
MA NON PUÒ ESSERE COSÌ! SE IL GOVERNO MONTI ANDRÀ AVANTI SULLA STRADA DELL’ATTACCO ALLE CONQUISTE E AI DIRITTI DEI LAVORATORI SI APRIRÀ UNA FASE NON BREVE DI LOTTA.
QUESTA VOLTA NON CI SARÀ SOLO LA FIAMMATA DI UNO SCIOPERO GENERALE, MA, COME HA DETTO SUSANNA CAMUSSO, “TANTI SCIOPERI ARTICOLATI, PROTESTE MIRATE, DURATURE, PIÙ DOLOROSE”!
Franco Pinerolo