Cristiani, cattolici, crociati.. e pure schiavisti.. magari nei confronti dei prigionieri musulmani
….”la chiesa cristiana, specie quella romana (…), non fu mai a favore dell’abolizione esplicita, generale, universale della schiavitù; anzi, per molti versi, ne continuò il prolungarsi nel tempo, adottandola, per esempio, in maniera decisiva nei confronti del mondo islamico” – Tanto per chiarire…
Illuminante il primo capitolo, ironicamente intitolato “La religione dell’uguaglianza”, che Walter Peruzzi ha voluto dedicare ai rapporti tra cristianesimo e schiavismo, nel suo imponente volume, Il cattolicesimo reale (Odradek edizioni).
Con grande dovizia di citazioni l’autore ha voluto smontare uno dei miti più diffusi nella storiografia occidentale e in particolare in quella ad uso nelle scuole italiane: il mito di un cristianesimo, se non politicamente, almeno eticamenteostile alla pratica dello schiavismo.
Che non lo sia mai stato politicamente era infatti già noto, almeno sin dalle lettere paoline (ove si parla di lotta non contro la carne e il sangue ma contro le potenze dell’aria, di imitazione del Cristo servo di dio, di redenzione morale dal peccato originale, di uguaglianza tra libero e schiavo nell’aldilà, di giudizio universale alla fine dei tempi ecc.). Al massimo qualche dubbio lo si poteva nutrire analizzando quanto l’impero romano aveva riservato al messia Gesù, che pur i vangeli presentano ostinatamente come un irriducibile pacifista, addebitando non ai romani ma all’invidia dei capi religiosi del giudaismo il principale movente della crocifissione.
Salvo dunque la parentesi del nazareno, il cristianesimo non ha mai voluto porsi come movimento politico rivoluzionario, e tuttavia gli storici han sempre pensato che alcune testimonianze di origine cristiana fossero più che sufficienti per affermare con sicurezza che questa religione non fu mai espressamente a favore dello schiavismo, nel senso che questo semmai veniva interpretato dalla chiesa come frutto del peccato d’origine, come male inevitabile, riscattato moralmente dal sacrificio di Cristo, che s’era fatto “schiavo” per liberare gli uomini dal peso di una condanna divina.
Quando paragonava lo schiavo al “servo Gesù”, fattosi “uomo” pur essendo “dio”, fattosi crocifiggere pur potendo stravincere, la chiesa esaltava kenoticamente la figura dello schiavo minacciando di castighi eterni gli schiavisti che avessero abusato del loro potere. L’uguaglianza sociale era sì rimandata alla dimensione ultraterrena, ma il clero sapeva bene che se non avesse perorato, almeno moralmente, la causa degli oppressi, non avrebbe potuto sconfiggere le religioni rivali, non si sarebbe imposta sul radicato paganesimo, né sarebbe riuscita a rivendicare una certa autonomia dall’autorità statale.
Non bastava illudere il povero e lo schiavo che, facendosi cristiano, avrebbe vissuto una migliore condizione di vita: bisognava anche dimostrarlo concretamente. E il cristianesimo, attraverso l’assistenzialismo, la predicazione a favore degli emarginati e la mediazione interclassista, riuscì finalmente ad avere la meglio, imponendosi persino agli ingenui storici orientali e occidentali, che sino alla nascita delle moderne idee ateistiche non misero mai in dubbio l’apparente buona disposizione dei dirigenti cristiani nei confronti delle grandi masse schiavili e servili.
Nei manuali di storia lo schiavismo, come organizzazione di sfruttamento generale del lavoro, si ripresenta alla fine del Medioevo, esattamente nei luoghi in cui si realizzò la conquista coloniale (maxime nel continente americano). E ci sono voluti non pochi secoli prima che gli storici arrivassero a capire che la tolleranza di questa pratica, da parte del clero cattolico, non poteva certo essere giustificata in considerazione del fatto che in quei remoti territori i colonizzatori avevano a che fare con indigeni pagani e superstiziosi, riluttanti a farsi convertire. Ancora oggi in verità si continua a insistere nel dipingere le popolazioni pre-cristiane in generale come dedite a usanze barbariche, a sacrifici umani e riti cannibalici, sperando così di avvalorare, almeno in parte, l’esigenza che sin dall’inizio si aveva di esportare nel mondo la civiltà cattolico-romana.
Per poter avere un’effettiva svolta nella storiografia dei rapporti schiavismo-cristianesimo occorrerà attendere che l’abolizione della schiavitù venga assunta come “questione” da forze sociali e politiche estranee al cristianesimo, come avverrà a partire dalla rivoluzione francese.
Insomma, gli storici confessionali (si pensi a Bossuet, de Maistre, de Bonald, Lamennais, Burke ecc.) e quelli che, pur dicendosi laici, dipendono in un modo o nell’altro dalle tesi cattoliche, han sempre sostenuto che il cristianesimo è stato eticamente contrario allo schiavismo. L’unica differenza tra i due schieramenti era che gli uni tolleravano lo schiavismo nei confronti delle popolazioni pre- o anti-cristiane, in nome dello scontro di civiltà. Gli altri invece (vedi p.es. H. Jedin o la nostra Marta Sordi) si limitavano a criticare gli aspetti più deteriori del cristianesimo colonialista, connessi all’uso della violenza brutale, allo sfruttamento economico e alla speculazione affaristica (la tratta).
Entrambe le posizioni han sempre sostenuto un distinguo fondamentale tra il clero, vocato alla propaganda religiosa, e i laici (cattolici e protestanti) conquistatori del mondo.
Ma poi venne Peruzzi…, che ha ribaltato questa lettura del fenomeno schiavile, mostrando a chiare lettere che la chiesa cristiana, specie quella romana (poiché è su questa ch’egli focalizza la propria analisi), non fu mai a favore dell’abolizione esplicita, generale, universale della schiavitù; anzi, per molti versi, ne continuò il prolungarsi nel tempo, adottandola p. es. in maniera decisiva nei confronti del mondo islamico. Esisteva quindi non tanto una sottile concessione, obtorto collo, di una pratica che si riteneva moralmente ingiusta, quanto piuttosto una certa convinzione della sua necessità, anche come forma di regolazione di controversie sociali altrimenti irrisolvibili.
Peruzzi tuttavia non è uno storico al 100%. Il suo testo si avvale di un’operazione di tipo sovrastrutturale, in cui, anche se si accetta uno svolgimento diacronico delle diverse disposizioni che la chiesa romana emanò, più o meno ufficialmente, nei confronti del fenomeno dello schiavismo, non si pone il problema di mettere a confronto tali disposizioni con la realtà concreta, cioè con la loro effettiva applicazione. Non compie neppure una disamina critica delle tesi storiografiche sull’argomento in oggetto.
Tuttavia egli sa bene che lo schiavismo, nel corso del Medioevo, era diventato incompatibile e in un certo senso inutile, come sistema sociale di vita, in un contesto decisamente caratterizzato dalla presenza dell’autoconsumo.
Al tempo dei romani lo schiavismo aveva trovato la sua ragion d’essere in due fattori fondamentali: la continua espansione geomilitare dell’impero e la prevalenza del mercato sull’autoconsumo. Già quando l’espansione ebbe una significativa battuta d’arresto sotto il principato di Ottaviano, interessato unicamente a salvaguardare il Mediterraneo, gli schiavisti si erano sentiti indotti a trasformare gli schiavi in coloni, cioè in lavoratori che potevano beneficiare in parte dei risultati del loro lavoro, fruendo di una relativa autonomia. Questa transizione era stata molto evidente nelle zone di confine, le più difficilmente gestibili dai rapporti di sfruttamento.
La successiva trasformazione del colonato in servaggio avvenne grazie all’arrivo dei barbari, i quali, pur non conoscendo né lo schiavismo né il servaggio come sistema sociale di vita, adottarono quest’ultimo come forma di mediazione sociale, per meglio integrarsi coi territori appena conquistati.
Il cristianesimo, dal canto suo, non trovò seri motivi per opporsi a queste trasformazioni: cercò soltanto di adeguarvisi. Ma è fuor di dubbio che se avesse perorato lo schiavismo, non solo non avrebbe trovato alcun consenso da parte delle tribù barbariche, ma non avrebbe potuto neppure surclassare le rivali religioni pagane, che nei confronti di questo fenomeno avevano assunto un atteggiamento di totale rassegnazione. Il fatto cioè che il cristianesimo non si fosse mai espresso esplicitamente contro lo schiavismo in generale (almeno sino alla prima metà dell’Ottocento), non significa che esistesse un tacito consenso da parte dei cristiani nei confronti di questa degradazione della persona umana o che essi non abbiano mai fatto nulla per attenuarne la gravità.
C’è differenza tra disposizioni emanate formalmente e pratica concreta, come c’è differenza, specie nella chiesa romana, tra istituzioni di potere, favorevoli all’assolutismo, e masse cattoliche, che fino alla nascita dei Comuni resteranno contadine al 100%. Questo per dire che se non ha senso (come fa la storiografia cattolica, convinta che i mutamenti sociali dipendano dalla religione) attribuire alla chiesa un potere più grande di quello dei sistemi socioeconomici dominanti, in cui essa ha vissuto, non si può neppure, come in genere ha fatto la storiografia marxista, negare alla chiesa una qualunque influenza significativa sulla società schiavile e servile.
Anche perché, in questa maniera, non si comprende un aspetto fondamentale e tipico della chiesa romana, e cioè che questa istituzione di potere ad un certo punto ha creduto di trovare la sua realizzazione più significativa (che molti storici confessionali ancora oggi rimpiangono) nell’ambito di quel progetto integralistico di costruzione della teocrazia feudale che sul piano ideologico non prevedeva affatto lo schiavismo come sistema sociale di vita, il quale al massimo veniva tollerato come eccezione, come retaggio del passato o nell’ambito della politica estera, quella di conquista coloniale.
La chiesa romana è la chiesa del “servaggio” per eccellenza, dove il rapporto servo-padrone è caratterizzato dalla dipendenza personale, in cui il ruolo dell’ideologia è decisivo. Il valore normativo di questa coercizione extra-economica sarebbe stato impensabile in qualsivoglia regime schiavistico. La chiesa sa di non poter chiedere al lavoratore – in nome della forza bruta – di restare schiavo, ma in nome della fede religiosa gli chiede di accettare di trasformarsi in servo della gleba.
Lo sviluppo dello schiavismo, in ambito cristiano moderno (nelle colonie del Nuovo Mondo), non fu una conseguenza del servaggio in sé, ma una conseguenza del fallimento del servaggio come sistema sociale di vita e, nel contempo, una conseguenza dell’incapacità da parte del cattolicesimo-romano di trovare una soluzione inedita a tale fallimento. Fu una soluzione disperata di sopravvivenza, destinata ad essere superata da una nuova forma di rapporto di lavoro, quellacontrattuale, che venne imponendosi nel mondo protestantico, e quindi in particolar modo negli Stati Uniti.
Se non si capiscono questi aspetti fondamentali del cattolicesimo-romano, non si può neppure capire il motivo per cui la chiesa protestante, sapendo di non poter più chiedere al lavoratore cristiano di restare servo, gli chiese in nome di una nuova fede religiosa, di diventare operaio salariato.
Servaggio e lavoro salariato non sono semplici forme mascherate di schiavismo, proprio perché, oltre a prevedere una diversa organizzazione del lavoro, risultano anche strettamente connesse all’uso dell’ideologia cristiana, che è servita per far credere ai lavoratori nell’esistenza di un processo storico verso la libertà. Certo, un processo del genere vi è indubbiamente stato, indotto dalla resistenza all’oppressione da parte dei lavoratori, ma è altrettanto indubbio che senza un definitivo superamento dell’ideologia cristiana in direzione dell’umanesimo laico sarà difficile che nuove teorie emancipative (di tipo socialista) non si trasformino, nel momento della pratica applicazione, in nuove forme di vessazione.
Va detto però che nei manuali di storia (antica, medievale, moderna) la storia della chiesa non s’intreccia organicamente con quella dello schiavismo e della sua trasformazione in servaggio, semplicemente perché uno storico si limita a esaminare le fonti disponibili, le quali espongono controversie di tipo teologico, ovvero la repressione delle eresie da parte delle istituzioni ecclesiastiche, e successivamente, in ambito occidentale, la lotta della chiesa romana contro gli imperatori per l’egemonia politica.
I due fenomeni, schiavismo/servaggio e cristianesimo, sembrano marciare su binari separati e gli invisibili fili che li legano spesso non vengono non solo visti ma neppure ipotizzati. Il libro di Peruzzi, in tal senso, attende ulteriori ricerche con cui verificare fino a che punto le dichiarazioni ufficiali della chiesa romana a favore dello schiavismo trovarono effettivi riscontri nella vita reale.
Peruzzi Walter