Beni culturali negletti e Calabria sconsolata… di Consolata Cortese
…da ragazza non amavo gli scioperi “perditempo” a scuola. Il perché, l’ho capito molti anni dopo. La mia è una famiglia di contadini e di emigranti. Sono stata la prima, in tutta la parentela, a raggiungere una laurea. Per questo, sebbene confusamente, mi era chiaro che le ore perse erano ore sottratte non solo alle mie possibilità di conoscenza ma anche a quelle di “ascensione nella scala sociale”. Ma devo a quelle mattinate in cui per qualche motivo che mi pareva importante, neppure io entravo a scuola, alcune delle ore più belle e formative della mia giovinezza.
Con qualche compagna, me ne andavo al Museo. Allora non c’erano ancora i Bronzi e la mia passione erano le Pinakes, le tavolette votive di terracotta che raccontano la storia di Persefone, della fanciulla che vive per sei mesi nel regno di Ade, col suo sposo, dio dell’oltretomba, e sei mesi sulla terra, con la madre, Demetra, dea delle messi.
Restavo lì, incantata con quel senso di sospensione del respiro che mi crea la bellezza, quella greca in particolare. E anche con la sottile inquietudine che dà accostare il sacro mistero della connessione buio/luce, notte/giorno, morte e vita: toccare, in qualche modo, quella continuità circolare tra il seme che scende nella terra e marcisce nel freddo dell’inverno e la spiga che si piega carica al vento caldo dell’estate. (Era da pochi anni che mio nonno non coltivava più il grano, ed era vicinissimo il ricordo di quell’oro che si muoveva nel vento assolato, con il frinire degli insetti e i papaveri, esplosi sulla fronte, come baci schioccati da un bambino e un caldo che sapeva di vita piena e sembrava quello del grande forno in cui, essendo la più piccola, entravo a prendere gli ultimi biscotti di pane, finiti proprio in fondo e che, zuppi d’olio, diventavano subito il più buon cibo del mondo).
Anche per capire che cosa, oltre e più profondamente di tutto questo, mi portava al Museo, ho impiegato anni. Sapevo bene di vivere alla periferia della periferia del mondo. Di partire svantaggiata rispetto ad altri liceali italiani. Per tanti motivi. A cominciare dall’isolamento determinato dalle difficoltà di movimento: per esempio, quelle di noi che gli scarsi e lenti pullman, finite le lezioni, riportavano a una diecina di chilometri a nord o a sud del “Tommaso Campanella” non avevano frequentazioni neppure con le compagne che vivevano a Reggio, in città.
A me e alle mie compagne, il Museo trasmetteva l’evidenza schiacciante e non bisognosa di parole che i limiti del nostro crescere in periferia non erano che una contingenza storica. Avevamo un passato che pochissimi potevano considerare secondo al loro. Ovvero, avevamo un’àncora che ci permetteva di ipotizzare che nessun futuro ci era precluso.
Alla fine di quest’anno, il Museo, rinnovato, ingrandito e abbellito, avrebbe dovuto riaprire le sue porte, permettendoci di rivedere a casa loro i Bronzi, le Pinakes e i mille reperti di una grande civiltà. Non sarà così. E, il peggio, è che non si sa se e quando i lavori di ristrutturazione, trovati i (pochi) milioni di euro che ancora servono, ricominceranno.
So bene che le emergenze calabresi sono tante – senza fare la solita litania, mi limito a sottolineare quell’indispensabile cura del territorio che la recente alluvione ha riportato alla massima attualità – e, anche, che i soldi del Paese sono pochi.
Ma al nuovo ministro dei Beni culturali e a tutti quelli che, per ruolo istituzionale, possono fare qualcosa, lasciami ripetere: fate il possibile e anche l’impossibile per non privare la Calabria del suo passato. (E il mondo dell’anima della Calabria).
Consolata Cortese
(zoomsud.it)
……..
Commento di Alba Montori:
Cara Consolata, come ti sento vicina al mio cuore… Anche io passavo le ore degli scioperi nei musei e nel Foro Romano…
Chissà se gli studenti oggi vanno al museo o agli scavi a passare le mattinate, quando non vanno a scuola?