La coscienza del Tutto, il Sé e l’assenza dell’io nella Spiritualità Laica
Partendo da un discorso estremamente laico, quello del nichilismo, quello che segue è l’interscambio epistolare fra due ecologisti profondi e spiritualisti laici: Paolo D’Arpini e Lorenzo Merlo. In questo scambio di pareri si cerca di evocare l’Esperienza del sé, privo di ogni identificazione, in assenza dell’identificazione egoica. (P.D’A.)
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Scrive Lorenzo Merlo
Ciao Paolo.
Nella prospettiva adottata per scrivere quelle note nichilistiche (vedi http://bioregionalismo-treia.blogspot.com/2011/09/spiritualita-laica-nichilismo-e.html) , quando domandavo sulla permanenza o saltuarietà di una certa condizione umana, mi riferivo a quella nella quale l’io svanisce, nella quale il sentimento è di partecipazione al Tutto, nella quale si sente di essere il Tutto.
Condivido che possiamo indicare come permanente la consapevolezza di poter essere o di essere stati il Tutto, ma non sono in grado di poter sostenere che possiamo essere permanentemente senza io. Almeno in vita materiale.
Che ne pensi?
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Risposta di Paolo D’Arpini
Carissimo Lorenzo, sei andato al dunque… al dubbio atroce di tutti i cercatori spirituali che hanno avuto una fugace esperienza del Sè… Dal punto di vista dell’io che si identifica con il corpo e con la mente e riconosce lo scorrere del tempo e l’esperienza empirica della vita, come reale, sembrerebbe che l’esperienza del Sè sia transeunte e sporadica.. Questo sicuramente dipende dalle tendenze mentali esteriorizzanti che catturano l’attenzione della coscienza. Allo stesso tempo l’esperienza del Sè è totale e aldilà di ogni dubbio o considerazione sulla ipotetica durata della vita, temporalità, condizione dell’io, etc. Per cui non si può realmente parlare di “impermanenza” bensì di semplice oscuramento.. e l’oscuramento non è una sostanza bensì sovrimposizione. Per questa ragione nello Zen si descrive il Satori come “l’esperienza” in senso assoluto.. ed anche nella tradizione advaita il riconoscimento della propria natura o “Io” trascendentale è visto come come l’unico accesso al Sè. Questo processo, se tale si può defrinire, è chiamato nel tantra yoga “Shaktipat”, nella tradizione cristiana “discesa dello Spirito Santo”, nel sufismo “incontro con l’Amato”, etc…
Questa esperienza è indispensabile per riconoscere la verità sul Sè.. ma la memoria che ne deriva, una volta che tale esperienza viene ricoperta dalle tendenze innate oscuranti, è solo un’interpretazione della mente.. in questa interpretazione la prima conseguenza è quella di ritenere l’esperienza come transeunte ed ottenibile, in forma stabile, solo in conseguenza alla perdita del corpo mente. In realtà il corpo mente non è l’ostacolo.. ma solo la falsa identificazione dell’io nell’apparato psicosomatico… Come spesso accade al sognatore che si identifica con un personaggio sognato… quando tutti i personaggi indistintamente sono lo stesso sognatore…
Per farla breve il senso dell’impermanenza dello Stato non duale è regolato (in conseguenza della schermatizzazione mentale) dalla considerazione della sua impermaneza. Shankaracarya, grande saggio del V secolo d.c., faceva l’esempio della paura provata da un viaggiatore per un serpente incontrato sulla via… in realtà si trattava di una corda arrotolata.. ma la paura non scompare finchè la consapevolezza del serpente se ne va e viene sostituita dalla consapevolezza che si tratta di una corda arrotolata.
Nella mia vita ho avuto la fortuna di riconoscere in me stesso la realtà del Sè (non duale) ed ho conosciuto diverse anime in cui tale stato si manifestava in modo permanente e stabile, ed ognuno d’essi negava l’impermanenza della realtà del Sè.. definendola semplice “ignoranza”. Ho fiducia in questa visione ed ho smesso di considerare come un “problema” il sentire tale permaneza, o non sentirla, quindi non interpretando l’esperienza del Sè, nella memoria, ma vivendola.
E’ vero che la mente continua a fare i suoi giochi identificandosi di volta in volta con questo o quel pensiero ma che importanza ha il ruolo di cui si riveste? Od il personaggio della recita?
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Scrive Lorenzo Merlo:
Ciao Paolo,
c’era qualcosa che non mi quadrava.
Era che io mi riferivo all’essere il Tutto e tu all’esperienza del Sé.
La natura che portiamo ci diviene esplicita dopo averla ripulita dalla cultura che la copre. In queste misura possiamo ritenerla una dimensione permanente, ma penso ci siano anche argomenti per sostenerne l”occasionalità dovuta alle circostanze entro le quali costruiamo la nostra realtà. Un po’ come il coraggio o la volontà: ne possiamo disporre in forma incostante appunto in funzione delle circostanze.
Quanto ti chiedevo riguardava invece il Tutto, l’Uno. Riguardava se e come possiamo esserlo permanentemente. Il mio mezzo per provare a descrivere lo stato dell’essere Tutto, è quello che cita una condizione nella quale non possiamo più essere “io”, nella quale non possiamo compiere un’azione, ovvero, nella quale l’azione è ma non siamo noi a compierla in quanto la siamo. Cioè una condizione nella quale il duale schema di supporto di tutta la realtà materialistica, di quella oggettiva e di quella logica e del tempo lineare, dell’agente e dell’agito, non è più termine di riferimento.
Termine che viene “sostituito” da un vissuto nel quale percepiamo la circolarità del tempo e la volumetria dello spazio, cioè un luogo dove “realmente” l’altro è un me in tempo e modo opportuno; dove, appunto non c’è qualcuno che agisce ma c’è solo l’agire.
Sè e Tutto sono contigui? Forse si, in quanto anche il tempo circolare e lo spazio volumetrico divengono accessibili solo dopo le grandi “pulizie di primavera”, che riconosce la polvere e cosa essa copriva, che riconosce che la realtà è maschera.
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Risposta di Paolo D’Arpini:
Caro Lorenzo, Sè e Tutto non sono contigui, sono la stessa identica cosa, ovvero una descrizione. Poichè nello stato di realizzazione del Sé o del Tutto non c’è alcuno a definire cosa sia Sè o Tutto.