Fulvio Di Dio.. e l’acqua sporca (un po’ ripulita dal referendum!)

Caro Paolo D’Arpini,

partendo dalla gestione dell’acqua, la vittoria ai referendum penso che lasci trasparire anche un altro modo di ri-pensare la società e il nostro rapporto con quel che rimane della natura.

Ad esempio, la privatizzazione del servizio idrico in Italia è passata attraverso una serie di normative che, poco per volta, hanno permesso di trasformare le imprese municipalizzate in società di capitali con presenza di privati.

In sintesi, possono essere individuati quattro passaggi fondamentali nel processo di apertura ai privati. Innanzi tutto la legge di riforma enti locali (l. 142/1990) ha introdotto l’azienda speciale, la quale si comporta come un imprenditore: deve, quindi, far fruttare dei ricavi dalla gestione dell’acqua. Il secondo passaggio si è avuto con la legge Galli (l. 36/1994), la quale prevede che la tariffa richiesta per l’utilizzo dell’acqua non debba limitarsi a coprire i costi del gestore privato con i suoi ricavi, ma impone per legge di remunerare il capitale investito nella misura del 7 per cento, indipendentemente da qualsiasi obbligo o incentivo al reinvestimento per migliorare il servizio. Il cosiddetto lodo Buttiglione (legge 326/2009) ha aggiunto a questa norma il concetto di “rilevanza economica” per il servizio idrico integrato. Infine, il decreto Ronchi (dlgs. 135/2009) ha obbligato per legge gli enti locali a mettere sul mercato l’acqua. Il decreto permette ai privati di controllare la maggioranza delle società che gestiscono il servizio. Inoltre, sempre d’imperio, da dicembre 2011 cesseranno tutte le gestioni pubbliche, comprese quelle funzionanti ed efficienti, svuotando in questo modo la proprietà sostanziale del bene che sarà trasferita, di fatto, ai gestori privati.

A questo punto, è naturale chiedersi quali obblighi sono stabiliti dalla legge a carico dei gestori privati. Dal punto di vista dei gestori, le società private o miste pubblico-private sono, sulla carta, “controllate” da regolatori locali (le c.d. AATO, Autorità dell’ambito territoriale ottimale, composte dai rappresentati degli enti locali) tramite convenzioni. Si tratta, purtroppo, di un altro vero e proprio punto dolente, che risale alla legge Galli: sugli standard di qualità e di vigilanza da inserire nelle convenzioni-tipo è lasciata ampia discrezionalità alle Regioni.

Ricordiamo che tali convenzioni costituiscono l’unica fonte di obblighi del gestore nei confronti della pubblica amministrazione, e quindi di noi cittadini, e anche in questo caso assistiamo a uno svuotamento. Ad esempio, sul versante delle sanzioni, gli inadempimenti sono trattati come contratti di diritto privato, agendo dunque solo dopo l’accertamento di diritto del danno. Assistiamo quindi a un modello di regolazione diffuso e debole affidato alla convenzione (chiamata oggi “contratto di servizio”), che non consente una chiara distinzione tra regolatore e regolato. In sintesi, manca una vera e propria autorità di regolazione indipendente.
Un altro punto dolente è quando si sostiene che la gestione privata è in grado di garantire meno sprechi e più risparmio per i cittadini. In questo caso assistiamo a una vera e propria mistificazione. I fautori della privatizzazione sostengono che ciò che si privatizza non è l’acqua, ma la sua gestione e che la “concorrenza” che si verrebbe a creare apporterebbe benefici agli utenti/clienti come la diminuzione delle tariffe, l’aumento degli investimenti e il miglioramento dei servizi. Niente di più falso. L’acqua, fino a quando rimane negli invasi, nei corsi, nelle falde, non assolve una funzione sociale: questa si realizza soltanto con la sua captazione, potabilizzazione, distribuzione – ossia, con la gestione del servizio idrico integrato. Privatizzarne la gestione significa, quindi, subordinare la funzione sociale agli interessi e obiettivi privati, oltre che ai meccanismi di mercato. Il servizio idrico è, giuridicamente, un monopolio naturale: non si possono costruire condotte parallele e/o separare approvvigionamento, depurazione ecc. Di conseguenza non è assoggettabile al regime della concorrenza nel mercato. La gara d’appalto per la concessione del servizio trasferirebbe il monopolio naturale nelle mani del privato, il quale per massimizzare l’utile comprimerà i costi, incoraggerà i consumi e aumenterà i prezzi. Questo avviene in ogni parte del mondo.

La visione alla base dei quesiti referendari appena vinti è diametralmente opposta e basata sull’idea di modelli e pratiche di gestione dell’acqua – e dei beni comuni in generale – fondati sulla partecipazione e il controllo sociale. È un’idea costruita su politiche che si caratterizzino per la scala locale delle fonti di approvvigionamento, delle infrastrutture, delle risorse necessarie alla costruzione e manutenzione delle reti, e basate necessariamente sulla gestione dell’offerta territoriale della risorsa (ossia della sua disponibilità naturale e locale).

In altre parole, propongono un governo più strettamente dipendente dal territorio e maggiormente vincolato al rispetto dei cicli ecologici.

Fulvio Di Dio – Referente per le aree urbane della Rete Bioregionale Italiana

Autore di Acqua sporca. Il gorgo nero delle privatizzazioni, Editori Riuniti, 2011

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