Bioregionalismo: “Quando era il tempo delle more…” – Come la frutta stagionale può darci il senso dell’identità del luogo nel suo giusto valore

Ante Scriptum

Il racconto che segue è stato pubblicato sull’ultimo numero del nostro Bullettin, l’organo del Circolo Vegetariano VV.TT., che uscì in forma di “brochure” in occasione dell’incontro della Rete Bioregionale Italiana, tenuto a Calcata (nel Tempio della Spiritualità della Natura e nella sala Consigliare del Comune) dal 9 all’11 maggio del 2003. Il tema trattato era: Bioregionalismo ed Economia Sostenibile (ringrazio Gondrano per averne tenuto memoria).

Dal 2003 sono cambiate diverse cosette nella Rete Bioregionale. 9 anni sono tanti… Alcuni dicono che la maturità spirituale per l’uomo si raggiunge a questa età (i sei anni sono ancora radicati nell’infanzia ed i 12 anni manifestano già le “devianze” psichiche legate alla sessualità).

L’esperienza bioregionale, qui narrata da Etain, rappresenta una forma primordiale di “economia”, quell’economia molto vicina all’ecologia..

Infatti economia ed ecologia hanno lo stesso prefisso “eco”, che significa ambiente… solo il suffisso cambia ma il senso anticamente poteva essere il medesimo.

“Nomia” sta per dare il nome, ovvero considerare le diverse qualità dell’ambiente e dei suoi prodotti che a mano a mano venivano conosciuti dall’uomo, che imparava a servirsene, e -ovviamente- significa che la definizione porta ad un utilizzo funzionale (”economico”) del prodotto preso in esame. “Logia” sta per studio, per comprensione delle caratterististiche specifiche che i vari elementi presenti nell’ambiente presentano e come essi siano strettamente interconnessi ed inscindibilmente correlati gli uni agli altri.

Qui assistiamo ad una sintesi dei due significati… una sintesi che ci fa comprendere come il necessario e l’utile possano integrarsi senza intrupparsi.. Come diceva Lao Tze: “Il Tao è dove il semplice ed il facile si coniugano”

Paolo D’Arpini

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Tanti anni fa, nella stagione delle more, è capitato da noi un’anziano signore inglese molto simpatico con la moglie. Erano venuti in vacanzaallora si andava ancora a prendere l’acqua dalla sorgente col secchio. Era il momento in cui si faceva la marmellata di more e quell’anno aveva piovuto alla fine di luglio e ce n’erano tante.

La marmellata allora era una dei nostri prodotti principali e ne facevamo sempre la massima quantità che ci permetteva la frutta a disposizione: prima le visciole (come qui chiamiamo le amarene), poi le susine, le bacche di sambuco, le pesche, le corniole, i fichi e alla fine le mele con le more.

Mentre il gruppo di amici e familiari si avviava con cesti e secchi all’alba verso i campi, è arrivato Charles che si alzava sempre prestissimo e ha chiesto se poteva venire ad aiutarci. “Certo, ci fai un piacere!” e gli ho dato un cesto. Ci sono venti ettari da percorrere, con more in tanti punti della collina, e ognuno ha la sua zona preferita. C’è in particolare un campo con certe more giganti, bellissime, e si va sempre lì per prima. Ci sparpagliammo per il campo ed è calato il silenzio della raccolta intensa, interrotta solo da qualche grida quando qualcuno scopriva un punto veramente splendido oppure quando si litigava per le aree di competenza. Tutti sapevamo che quando avremmo finito questo campo dalle more spettacolari, ci sarebbe toccato andare a cogliere anche quelle meno belle.

Ma ecco dopo una ventina di minuti arrivare Charles, che mi veniva a dire “Ho fatto un giro per rendermi conto e ho fatto un po’ di calcoli. Ci sono qui certe more che conviene cogliere – per una questione di ‘cost-effectiveness’, capisci, ma le altre che sono piccole conviene lasciarle perdere, perché il tempo per la raccolta non verrà ripagato.” Ero così sbalordita da questo discorso logico che non riuscivo lì per lì a trovare la risposta e ho solo annuito. Era la logica di produzione da supermercato, in cui si dà per scontato che il lavoro è noioso e va sempre limitato al massimo, il prodotto deve ripagare al massimo l’investimento e c’è teoricamente una quantità illimitata di materia prima. Ma qui non è così, anzi: il lavoro è piacevole perché siamo fra amici in una mattina fresca d’estate in una valle deliziosa e solo la vista di quelle more gonfie e lucide fa venire la voglia di raccoglierle, i soldi eventuali della vendita della marmellata servono, sì, ma non è l’unico pensiero, prima di tutto perché abbiamo un tenore di vita molto basso e poi perché si pensa anche al piacere che si offre agli altri che mangeranno questa marmellata squisita.

Questa marmellata è fatta con orgoglio e cura, non ha bisogna di certificati per costringerci a non barare! Abbiamo anche del tempo a disposizione: se non facessimo questa raccolta, potremo magari stare senza fare niente, ma sarebbe più bello questo far niente di quello che stiamo facendo ora? E infine, non c’è una quantità illimitata di more da cui scegliere: ci sono queste more in questa valle, quelle belle grosse e quelle piccole – e basta! E le more ci sono solo per qualche settimana adesso, e poi per un anno o forse anche due, non ce ne saranno più. Le more della prossima vallata sono del nostro vicino, che magari è goloso quanto noi! Ho lasciato a Charles naturalmente il piacere del suo calcolo e quando lui ha visto che le more grosse erano tutte raccolte, è andato a casa a svegliare la moglie con un cappuccino e un piattino di more. Noi siamo andati sul campo sopra il bosco a cogliere anche le more piccole prima di cominciare il lavoro della cottura, “perdendo” molto tempo con il sole sulla schiena e le dita nella rugiada delle foglie, chiacchierando tranquillamente tra di noi.

Ora, qui abbiamo in piccolo due modi di intendere la vita. Così come esiste il fast food, esiste anche il fast work. Ma c’è un movimento di persone che resiste a questa tendenza nella cucina, che apprezza lo slow food: quello raccolto, coltivato, allevato, cucinato con amorosa attenzione e goduto non solo nella fase di assaggio ma lungo tutto il percorso. E io credo che sia lo stesso anche per il lavoro. Qualunque attività, svolta in un certo modo può essere fonte di soddisfazione, benessere e creativi rapporti umani. Può anche incidere nei rapporti con i non umani e la terra stessa. “In un certo modo” significa: su scala piccola, con energia umana invece del petrolio, in luoghi familiari di cui abbiamo cura, luoghi che non desideriamo devastare bensì conservare. Noi abbiamo molti alberi, ma non tagliamo quasi mai i boschi per riscaldarci o cucinare, questa legna la prendiamo da un lavoro lento di pulizia dei pascoli.

Certo, è più lento fare legna quando non è l’unico obiettivo del lavoro. Si vede molto bene, per esempio, quando un bosco è stato tagliato per fare soldi con il legname. Si vede subito che sono stati tolti gli alberi più belli e sono stati lasciati quelli più brutti. E’ molto diverso quando si vede un bosco che è stato tagliato con il bene del bosco in testa. Anche questo secondo modo di fare produce legname, ma il legname è di meno e il lavoro è più lento, più curato, più attento: slow wood! Dopo aver tagliato il legname grosso, c’è un lavoro ancora più lento e niente affatto cost-effective, che consiste nel recuperare i rametti che normalmente oggigiorno vengono buttati via. Quel legno lì per cucinare è speciale, ma bisogna farne fascine, perché altrimenti non è agevole per trasportare o usare in cucina e fare le fascine è un altro di quei lavori lenti, curati e piacevoli.

E’ un lavoro di chi ama osservare l’inverno che finisce e la primavera che avanza, sentire tamburrellare il picchio, sentire l’improvviso fruscìo degli stormi di fringuelli sopra la testa come l’ala di un angelo. Quale calcolo economico possiamo fare di questo lavoro, che faccia rientrare anche la sensazione di essere lambiti da un’ala di angelo? Ho cercato di dare un esempio piccolo e concreto di un modo di lavorare che abbia cura della terra e degli altri esseri perché vorrei fare una domanda. E’ concepibile un’amministrazione politica -di qualunque livello organizzativo- che legifera attorno a questa modo di lavorare slow? O non sarà piuttosto che questo mododi lavorare può emergere soltanto dal basso, dal desiderio umano dell’individuo di “perdere” tempo per sentire l’alba o vedere il tramonto, per sentire la soddisfazione di un lavoro fatto ad arte, con rispetto e gioia?

Siccome personalmente credo che sia impossibile imporre questo modo di lavorare dall’alto, trovo difficile immaginare in che modo la società odierna come collettività possa darsi, a priori, delle regole che tendono ad un economia sostenibile. Ognuno nella propria vita, sia in città che in campagna, è libero di scegliere un modo sostenibile di lavorare e di vivere.

Sicuramente ci sono delle situazioni in cui bisogna essere ben creativi e forse anche coraggiosi per escogitare dei processi rispettosi e piacevoli per il proprio sostentamento, eppure ci sono mille strade proponibli. Ma per un essere umano, limitare il proprio guadagno a favore della propria soddisfazione morale, a favore del prossimo, del prossimo non umano e della terra, sarà sempre una scelta consapevole che parte dal cuore e non da un direttivo. Forse, quando una massa critica di individui con una vita già riorganizzata e orientata verso un’economia sostenibile arriverà a riconoscersi come collettività, queste persone potranno collegare il loro operare in una rete dimodoché la somma è più grande delle parti. Capisco che i due esempi che ho dato si possano etichettare come frutti di una vita che è solo un romatico ritorno al passato. Ma vogliamo guardare bene in faccia questo presente? La rivoluzione industriale con tutti questi macchinari che dovevano lasciarci più tempo libero, che effetto ha avuto? Ha creato un breve periodo di benessere per poi creare una disoccupazione crescente in tutti i paesi industrializzati, come ben prevedevano i luddisti inglesi dei primi anni del 1800, e questo dopo aver prima allontanato le persone dalla propria terra e dalla propria autosufficienza per renderli eterni clienti.

Ora molta gente è cliente delle multinazionali per tutte le proprie necessità ma non ha lavoro, o ha solo un lavoro precario o se ha lavoro spesso è un lavoro che odia. Butta i vestiti nella lavatrice e le scatolette nel forno a micro-onde perché deve correre in ufficio o in fabbrica a fare l’ingranaggio alla grande macchina capitalista con la paura di perdere il posto e finire sul lastrico come la marea umana che si vede dormire sui marciapiedi in tutte le grandi città. E poi, come dice il nativo americano John Trudell, noi occidentali non siamo più così necessari per i multinazionali neanche come clienti: ci sono nuovi clienti nel terzo mondo che comprano i beni di consumo senza avere tante pretese come noi – asili nidi, condizioni di lavoro adeguate, sanità assistita, e così via. I clienti del terzo mondo che ora vengono allontanati anch’essi dalle loro terre, ci toglieranno piano piano quest’ultima funzione nella vita dei grandi capitali.

Ermanno Bencivenga, nel suo libro Manifesto per un mondo senza lavoro, proponeva l’idea rivoluzionaria di lavorare meno ore (e lavorare tutti) per avere più tempo da dedicare al piacere: per passeggiare, andare in bicicletta, sdraiarsi al sole, cantare, ballare, leggere, imparare la fisica, la storia, dipingere, fare teatro, insegnare agli altri le cose che sappiamo fare, coltivare l’orto. Così si eviterebbe l’odierna sovrapproduzione assurda di beni che poi qualcuno deve pubblicizzare in modo martellante perché altrimenti non verranno comprati, usati, buttati e ricomprati. Anche questa idea ha come premessa un tenore di vita meno lussuosa ma molto più divertente. E sicuramente salverebbe le risorse che oggi vengono abusate e sprecate.

Vorrei ricordare le parole di un quacchero americano, John Woolman, che scrisse nel suo diario nel 1750, “I miei affari aumentavano di anno in anno (aveva un negozio e faceva anche il sarto) e davanti a me vidi la strada del successo, ma dentro di me sentii qualcosa che mi turbava”. Lo descrisse come un desiderio di liberare la mente da preoccupazioni mondane. All’età di trentasei anni, quindi, rinunciò a tutte le sue attività tranne la cura del suo piccolo frutteto e quei pochi lavori da sarto che poteva eseguire senza l’aiuto di operai. Dedicò quindi il risultante tempo libero alla lotta contro la schiavitù, e i suoi grandi successi li ebbe in quel campo.

Ognuno deve tirare le somme, capire dove è diretto il sistema capitalistico globale, chiedersi se non è meglio scendere da quel treno impazzito che è il mercato globale e inventarsi da soli una vita sostenibile. Quando ci saranno molte vite imperniate su un’economia sostenibile su piccola scala e dedite alla gioia di vivere, potremo parlarci di questo tipo di economia anche come collettività. Nessun Nestlé o Agip ce la organizzerà, e la politica è saldamente in mano a questi ultimi.

Etain Addey

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