Marinella Correggia: “Autarchia alimentare bioregionale per la salvezza del pianeta”
Sembra, nella nostra parte del mondo, che le evoluzioni positive prendano tempi lunghi – a differenza di quelle negative che distruggono a grande velocità.. Altrove invece si assiste a cambiamenti più rapidi.
Una bella lezione viene dalla Giamaica. Importa il 60% degli alimenti che consuma ma il ministero dell’Agricoltura vuole abbattere questa dipendenza di almeno il 45% al più presto, tanto più in tempi di prezzi elevati e restrizioni all’export da parte dei paesi grossi produttori agricoli. Cosa sta facendo quel paese per promuovere l’indipendenza (e dunque sovranità) alimentare? Ce lo spiega un reportage dell’Inter Press Service. Di fronte all’evidente natura erratica dei mercati mondiali, l’Autorità per lo sviluppo agricolo rurale (Rada) della Giamaica ha cominciato a promuovere orti domestici, rurali e urbani, in 14 aree strategiche. Era il primo punto di un Programma nazionale per la sicurezza alimentare, lanciato due anni fa con la distribuzione di kit contenenti semi, input e guide del piccolo coltivatore. È un programma con molti attori, che va sotto il nome di campagna «Eat Jamaican» (Mangia giamaicano, e dunque produci giamaicano).
L’obiettivo finale è l’accesso di tutti a cibo nutriente, a basso costo e locale.
Oggi gli autoprodotturi (per il consumo domestico e la vendita locale) sono aiutati con programmi di formazione, accesso al mercato, piccole tecnologie, e gli agrotrasformatori ottengono prestiti a bassissimo costo purché usino materie prime locali. Il processo sta andando bene: la bolletta delle importazioni alimentari è passata da 800 milioni di dollari nel 2008 a 661 milioni nel 2010. Ma si può andare oltre.
I progetti a favore di 5mila orticoltori urbani e duemila agricoltori «di campagna» sono tanti: dall’introduzione delle colture idroponiche in diverse comunità all’incremento della produzione di radici e tuberi, dal miglioramento dell’irrigazione al potenziamento delle capacità di stoccaggio alla riduzione delle perdite post-raccolto. Sul lato delle politiche commerciali, il governo è orientato a proteggere di più l’agricoltura dalle importazioni a basso costo.
Intanto i coltivatori brasiliani aderenti al Movimento Sem terra (Mst) accentuano le proprie scelte agroecologiche in un paese che è un gigante agricolo ma anche il primo consumatore mondiale di fitofarmaci, erbicidi, fungicidi, insetticidi, per una spesa di 7 miliardi di dollari nel 2008 (anno del sorpasso sugli Stati Uniti). I 5 colossi dell’agrochimica – Basf, Monsanto, Bayer, Syngenta e DuPont –hanno tutti delle fabbriche in Brasile.
C’è da dire che la spesa agrochimica per ettaro (circa 88 dollari) è pur sempre meno della metà di quella francese (circa 196 dollari) e un decimo di quella giapponese (851 dollari!). Ma secondo il Mst, è davvero troppo e gli effetti si vedono, per produttori e consumatori: l’Istituto nazionale del cancro ha annunciato che ogni anno si assiste a 40.000 nuovi casi di cancro allo stomaco, metà dei quali mortali. La causa principale è il cibo contaminato dai residui di prodotti chimici di sintesi.
E allora, negli ultimi dieci anni il Mst ha allargato la sua frontiera: dalla lotta per la riforma agraria e la giustizia sociale a quella per la produzione di cibo sano, per chi lo coltiva e chi lo mangia. Come spiega in un’intervista il leader del Mst Joao Pedro Stedile, «è del tutto possibile mantenere lo stesso livello di raccolti senza usare un singolo chilogrammo di veleni chimici». Naturalmente questo non può avvenire nel caso dell’agribusiness, che risparmia sul lavoro umano…
Marinella Correggia
(Il Manifesto)