“Bioregionalismo urbano ed ecologia profonda nelle comunità umane” di Paolo D’Arpini
“…me pasaría la vida viajando y pediría a la buena gente que encontrara en el camino de prestarme algo de su vida para probar a veces lo que significa sentirse en casa..” (Sbirba Aivlis)
Essendo vissuto per moltissimi anni in un contesto urbano (sono nato e vissuto a Roma ed ho anche abitato a Verona per oltre metà della mia vita), ed avendo anche tentato un esperimento di ri-abitazione di un piccolo borgo abbandonato, Calcata, con conseguente tentativo di ricostituire o -perlomeno- avviare un processo di comunità ideale (non so con quale successo…), posso affermare che massimamente il mio procedere “bioregionale” si è svolto in un ambito sociale “cittadino”. Ma attenzione, essere un cittadino non significa abitare in città bensì vuol dire riconoscersi in un “organismo” di civiltà umana.
Da poco più di sei mesi mi sono trasferito in una cittadina delle Marche, Treia, e questo è un successivo passo avanti verso la mia ricerca di una sistemazione sociologica ideale…. Infatti Roma è abitata da 6 milioni di persone, è insomma una metropoli, Verona conta quasi mezzo milione di abitanti, Calcata meno di mille… Mentre Treia arriva quasi a diecimila. Insomma sto cercando una giusta via di mezzo, adatta al mantenimento di un sano rapporto con l’ambiente e gli animali senza dover rinunciare ai vantaggi della “civitas”, essendo noi umani esseri altamente socializzanti….
La parola “Bioregionalismo” come pure il termine “Ecologia profonda” sono neologismi coniati verso la fine degli anni ‘70 del secolo scorso, rispettivamente da Peter Berg ed Arne Naess, uno scrittore ed un ecologista, ma rappresentano un modo di vivere molto più antico, che anzi fa parte della storia della vita sul pianeta ed ha contraddistinto tutte le civiltà umane (sino all’avvento dell’industrializzazione selvaggia e del consumismo). Diciamo che il “bioregionalismo” (che equivale all’ecologia profonda) contraddistingue un modo di pensare che muove dall’esigenza profonda di riallacciare un rapporto sacrale con la terra. Questo rapporto si conquista partendo dalla volontà di capire -riabitandolo- il luogo in cui viviamo.
Una bioregione infatti non è un recinto di cui si stabiliscono definitivamente i confini ma una sorta di campo magnetico (aura – spiritus loci) distinguibile dai campi vicini solo per l’intensità delle caratteristiche che formano la sua identità, alla stessa stregua degli esseri umani, contemporaneamente diversi e simili l’uno all’altro.
In una ottica bioregionale – dovendo analizzare i requisiti antropologici di una città ideale – occorre prima vedere gli aspetti di cosa è una città. Noi usiamo il termine città che deriva da “civitas” ma dobbiamo considerare anche l’altra definizione “urbs”, questi due termini hanno pari valore nella fondazione ed urbanizzazione del luogo abitativo.
Dal punto di vista antropologico sappiamo che una piccola comunità di 1000 persone consente a tutti i suoi membri la conoscenza personale ed inter-relazione reciproca. Ogni cosa prodotta ha come fruitori i membri tutti ed altrettanto dicasi per quanto è scartato. Nelle comunità antiche, nelle tribù che furono la base della vita umana per migliaia di anni, la reciprocità o solidarietà era elemento di sopravvivenza e sviluppo. Quando lentamente si giungeva ad una summa di tribù dello stesso ceppo originario (diciamo cento entità di 1000 componenti) si diceva che era nato un popolo, una società, insomma una “civitas”. Dobbiamo quindi partire da un elemento precostituito e cioé che l’ambito di una “comunità ideale” non dovrebbe superare i centomila abitanti. Ciò vale anche per una metropoli che andrebbe suddivisa in quartieri di tale entità. Perché? Per un semplice motivo: se tutti i componenti di una comunità “originaria” hanno interrelazioni in allargamento (diaspora) sarà possibile connettersi indirettamente o direttamente con gli appartenenti ai vari gruppi che compartecipano allo stesso luogo. Tutti individui diversi dal gruppo originario ma tutti “elementi effettivi” della stessa collettività.
Ampliando così il ramo di interesse dalla parentela vicina o lontana alla compartecipazione, somiglianza e convivenza nello stesso luogo. A questo punto le varie entità (o gruppi di individui) son paritetiche l’un l’altra, intrecciate in un contesto di relazioni e formano la base della città ideale. Forse i membri della città apparterranno a ceti diversi ma assieme a noi vivono nella città, con essi manteniamo numerosi rapporti personali come fra membri di una tribù ideale. Questa si può definire società ed il processo descritto conduce a forte correlazione e socializzazione e vivifica l’intera comunità. Ma si può dire che centomila abitanti son un limite. Giacché questo è il livello d’interrelazione possibile e la città bioregionale -secondo me- deve comprendere criteri di suddivisione sociale che rispettino questi termini numerici.
Non ho nulla contro la vita umana negli agglomerati umani, ma occore portare elementi di riequilibio all’insieme degli elementi vitali, materiali od architettonici che siano.
Il primo passo verso la riarmonizzazione delle aree urbane è il riconoscimento che esse si trovano tutte in bioregioni, all’interno delle quali possono divenire protagoste ed ecosostenibili. La peculiarità dei suoli, bacini fluviali, piante e animali nativi, clima, variazione stagionale e altre caratteristiche che sono presenti in un luogo-vita bioregionale (ecosistema), costituiscono il contesto base per l’approvvigionamento delle risorse quali: cibo, energia e materiali vari. Affinché questo avvenga in modo sostenibile, le città devono identificarsi e porsi in reciproco equilibrio con i sistemi naturali.
Non solo devono reperire localmente le risorse per soddisfare i bisogni dei propri abitanti ma devono altresì adattare i propri bisogni alle condizioni locali. Questo significa mantenere le caratteristiche naturali che ancora rimangono intatte e/o ripristinarne quante più possibili. Per esempio risanando baie inquinate, laghi e fiumi affinché possano ridiventare habitat salubri per la vita acquatica, contribuendo in tal modo all’autosufficienza delle aree urbane. Le condizioni che contraddistinguono le aree geografiche dipendono dalle loro peculiari caratteristiche naturali: una ragione in più per adottare i principi base del bioregionalismo, appropriati e specifici per ogni luogo e -soprattutto- utilizzabili per orientare al meglio le politiche municipali.
Le linee guida di questo mutamento possono essere prese da alcuni principi base che governano gli ecosistemi:
1) Interdipendenza. Accrescere la consapevolezza dell’interscambio fra produzione e consumo, affinché l’approvvigionamento, il riuso, il riciclaggio e il ripristino possano diventare integrabili.
2) Diversità. Sostenere la diversità di opinione così da soddisfare i bisogni vitali oltreché una molteplicità di espressioni culturali, sociali e politiche. Resistere a soluzioni che privilegino i singoli interessi e la monocultura.
3) Autoregolamento. Incoraggiare le attività decentralizzate promosse da gruppi di quartiere-distretti. Rimpiazzare la burocrazia verticistica con assemblee di gruppi locali.
4) Sostenibilità economica. Scopo della politica è quello di operare con interessi lungimiranti, minimizzando rimedi fittizi ed incentivando un processo di riconversione ecologica a lungo termine.
Mi sembra che il materiale trattato per il momento possa bastare al fine di una riflessione sul tema e di un ulteriore dialogo integrativo.. Lascio ai lettori la parola!
Paolo D’Arpini, referente della Rete Bioregionale Italiana
circolo.vegetariano@libero.it – Tel. 0733/216293
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