“Conviene il ripudio del Debito Pubblico.. Oppure pagare i 250 miliardi di euro solo per gli interessi 2011…!?” – di Maurizio Blondet
Ripudio del debito: forse conviene….
Grazie agli amici dell’EIR, sappiamo che Paolo Savona – economista nient’affatto alternativo, presidente del Banco di Roma, ministro nel governo Ciampi – ha proposto il tema-tabù: l’uscita dell’Italia dall’euro, «il cappio europeo che ci si va stringendo al collo».
Il motivo è elementare. L’unico vantaggio dell’adozione dell’euro era la possibilità per lo Stato di indebitarsi a tassi bassi, tedeschi. I mercati, per comprare i nostri Buoni del Tesoro, chiedevano lo stesso interesse che chiedevano per un Bund della solida Germania. Adesso questo vantaggio è svanito. Il BTP italiano deve pagare l’1,60% in più del Bund decennale, e non parliamo degli altri Paesi PIIGS: tassi del 4% o del 5% per spagnoli e portoghesi, addirittura del 9% per il debito sovrano irlandese, insostenibile; semplicemente, l’Irlanda va verso la bancarotta, e Portogallo e Spagna seguiranno.
Ciò significa una cosa ben precisa: che già investitori, speculatori e grandi prestatori si comportano come se i Paesi deboli europei già avessero le loro deboli, svalutate monete. Ma il fatto è che, invece, abbiamo l’euro: una moneta non nostra, forte e inflessibile, che non possiamo svalutare per ridar fiato alle nostre economie. E’ questo il cappio cui allude Savona.
Tornare alla lira; a quale prezzo per noi cittadini? Savona resta nel vago: attraverseremmo «una grave crisi di adattamento, con danni immediati ma con effetti salutari», perchè potendo tornare a gestire «autonomamente tassi d’interesse, creazione monetaria e rapporti di cambio», l’Italia «sostituirebbe a un sicuro declino un futuro migliore, attraverso il re-impossessamento della sovranità di esercitare scelte economiche autonome», e aggiunge, «comprese quelle riguardanti le alleanze globali» (sarebbe interessante pensare a cosa allude qui l’economista).
Certo è che i mercati punirebbero duramente la lira nei cambi, e nelle richieste di interessi alti. Siccome comunque dovremmo attraversare una grave crisi di adattamento, l’uscita dall’euro dovrebbe simultaneamente comprendere il ripudio del debito sovrano: tanto, la crisi non potrebbe peggiorare di molto, e in cambio ci libereremmo dal mortale sasso al collo del debito pubblico.
Una pietra colossale: l’anno prossimo l’Italia dovrà pagare, di soli interessi, 250 miliardi di euro – una decina di finanziarie – e la metà di questi soldi andrà a speculatori esteri, detentori dei nostri titoli pubblici. Nessuna prospettiva di ripresa è possibile, con questa macina da mulino. Rifiutarsi di pagarla a banchieri che hanno già guadagnato almeno il triplo di quel che ci hanno prestato (il nostro debito pubblico è vecchio, da due decenni paghiamo interessi), diventerà, prima o poi, un atto sovrano necessario.
Con quali conseguenze pratiche per noi italiani, e noi risparmiatori e detentori della metà dei titoli del Tesoro? A questa domanda, ha provato a rispondere un blogger economico competente, di nome Loic Abadie.
«La conseguenza immediata», scrive, «è beninteso una forte svalutazione della moneta del Paese, associata a una situazione d’iper-inflazione, a una perdita generale di fiducia della popolazione, che porterà a una caduta dei consumi e a una recessione profonda».
Tutto e solo male, dunque? Attenzione: qui è essenziale valutare la durata di questa grave crisi, prima dell’inevitabile ripresa che sicuramente produrrà la competitività ritrovata grazie alla svalutazione della lira, e alla liberazione dalla gigantesca macina da mulino (i 250 miliardi di euro) che i banchieri ci hanno legato al collo. Se la durata fosse lunga, qui la gente comincerebbe a morire di fame (a cominciare dai pensionati e dai piccoli risparmiatori); se fosse breve però, uno Stato serio potrebbe approntare dei sostegni d’emergenza per la parte debole della popolazione, in attesa dell’alba. Stiamo parlando dell’apertura di mense pubbliche, di razionamento con tessere annonarie e per i carburanti. Situazione tragica, certo, ma storicamente già provata in un’economia di guerra. E infatti, bisognerebbe far capire alla popolazione che siamo in guerra. L’importante è vincerla. Quale possibilità c’è?
Abadie distingue tre grandi categorie di Paesi.
1 – «Il Paese che ripudia il debito è un Paese di tipo emergente, con un’economia fondata sull’industria, capace di esportare quantità importanti di prodotti manifatturieri».
Questo è il caso più favorevole. Certo le famiglie risparmiatrici vedrano i loro risparmi liquefatti (salvo i più accorti ad anticipare la crisi, che hanno investito in beni tangibili, di preferenza all’estero). Ma il Paese continua ad avere introiti in valute forti grazie alle sue esportazioni, e con queste valute forti può acquistare le materie prime ed energetiche necessarie alle sue industrie.
Lo Stato può ripartire con le finanze risanate – non ha più la macina da mulino al collo – continuando a prelevare imposte sui profitti legati all’export. In questo caso, la crisi «può essere riassorbita abbastanza presto, con conseguenze relativamente limitate per la popolazione». Abadie fa l’esempio dell’Argentina, che ripudiò il suo debito (i nostri detentori di bond argentini ne sanno qualcosa) nel 2001. Il prodotto lordo del Paese si inabissò fra il 2001 e il 2002 (-15%), disoccupazione diffusa, i conti correnti furono bloccati (si potevano ritirare solo 200 dollari a settimana), i poveri andarono a raccogliere bottiglie di plastica da vendere, fu una tremenda ventata di miseria. Ma dal 2003 l’Argentina ha conosciuto un’impetuosa ripresa, con il rimbalzo del PIL del 17% nel 2003-2004.
2 – Il Paese che ripudia il debito dipende poco dall’estero per le materie prime, ma ha un’economia basata sui servizi, il famoso terziario.
E’ il caso di Stati Uniti e Canada: hanno importanti risorse naturali, prodotti minerari, petrolio e produzione agricola, ma de-industrializzati (specie gli USA) perchè hanno puntato sul terzario avanzato. La recessione e la crisi economica dureranno di più, perchè il Paese non può contare sull’export per guadagnarsi valute forti: ha bisogno di tempo per ricostruire un tessuto industriale adeguato, per produrre in proprio i beni che prima acquistava all’estero con la moneta forte. Il potere d’acquisto della popolazione cade più fortemente, perchè questa non può più godere dei beni di consumo importati a prezzi stracciati (la moneta nazionale avendo perso valore).
3 – Il Paese che fa default ha un’economia di servizi e dipende dall’estero per provvedersi di materie prime e di beni di consumo.
Questo è il caso peggiore. Il Paese perde la fiducia dei mercati e la sua moneta perde di valore, sicchè non può importare le materie prima di cui ha bisogno (non ha divise estere forti), in quanto non può contare su un volume sufficiente di beni fisici fabbricati ed esportati; e non può importare i beni di consumo che non riesce a produrre sul suo territorio. La crisi qui sarà più dura, e la ripresa tarderà molto.
«A meno di non tornare a fare a meno di prodotti e materie prime necessarie alla modernità», scrive Abadie, «questo Paese non avrà altra scelta che diventare, per lunghi anni, una zona di delocalizzazione a basso costo di manodopera per investitori esteri, venuti da Paesi con moneta forte»: in pratica, si tratta di diventare sede di fabbriche di montaggio e in mano a stranieri. Ciò perchè questi Paesi, comunque, possono puntare su due cose molto interessanti per gli investitori diretti: «Una manodopera istruita e ben formata, e dunque molto produttiva, e infrastrutture (strade, ferrovie veloci, reti telecom) buone, datate da prima della crisi».
Secondo Abadie, questa è la prospettiva «della Francia e della maggior parte dei Paesi europei». Sarebbero costretti a divenire un Messico, sede di officine di montaggio di beni ideati in USA ( sweatshops, le chiamano, officine del sudore), ma con in più una manodopera avanzata e avanzate infrastrutture. In questo caso, sarebbero gli investitori esteri, coi loro pacchi di valuta forte, a dettare le condizioni. Quali, le conosciamo: salari bassi, esenzioni fiscali, tagli ai costi sociali del lavoro (A quel prix un pays peut-il répudier sa dette?).
E’ il destino della «maggior parte dei Paesi europei»? Dell’Irlanda di sicuro, seguita da Portogallo e da Spagna, e forse dalla Francia. Ma è anche il destino dell’Italia?
A me pare che il nostro Paese cada più nel caso 1 che nel caso 3. Noi abbiamo ancora un tessuto industriale esportatore, anzi siamo il secondo Paese industriale dell’eurozona dopo la Germania, con produzioni industriali molto simili. La Germania ci ha rubato quote di mercato, ma un ritorno alla lira, e la svalutazione conseguente, ci consentirebbe sicuramente di superare i tedeschi nell’export, e di riassorbire la disoccupazione.
Abbiamo anche dei sorprendenti punti di forza nel settore finanziario…
Siamo i meno esposti verso i Paesi PIIGS, ossia verso quelli che più probabilmente faranno bancarotta sul loro debito.
Le nostre banche hanno sofferenze bancarie (NPA, non-performing assets) relativamente più modeste rispetto al PIL. L’arretratezza delle nostre banche, non abbastanza inserite nella globalizzazione, ci ha salvaguardato.
Il totale delle pretese finanziarie estere rispetto al nostro prodotto interno lordo è il più basso in assoluto. Certo, dovere il 46% della propria ricchezza prodotta annuale a stranieri, non è un allegro. Ma fate il confronto con la ricca Svizzera, con l’Olanda, con la Svezia, con il Regno Unito: nel Paese dei ciechi, il guercio è sano.
Ovviamente non si deve trascurare il nostro punto debole finanziario:
Il vero nostro punto di debolezza finanziario è il debito pubblico, il più alto d’Europa rispetto al PIL (120 %) e una fra le più alte necessità di rifinanziarlo, il 21,3% del PIL.
Motivo in più per ripudiare il debito: chi ha il debito più alto è quello che più guadagna a non pagarlo. Ricordiamoci i 250 miliardi d’interessi che dobbiamo pagare nel 2011, e che non pagheremmo se non parzialmente. Per esempio, lo Stato potrebbe pagare gli interessi ai soli detentori italiani di Buoni del Tesoro; ma li pagherebbe, a questo punto, nella propria moneta, che può creare ad libitum, e non in euro.
Secondo me, come il debito ci sta facendo andare a fondo, con per giunta al collo il cappio dell’euro forte che ci impone austerità senza ripresa, così il liberarsi da entrambi (interessi passivi ed euro) ci porterebbe rapidamente a galla, come un canotto che ha abbandonato la zavorra. Certo, torneremmo a galleggiare nella tempesta della recessione globale, con navigazione tutt’altro che facile. Certo, i creditori globali ci minaccerebbero, Wall Street ci manderebbe le portaerei al largo (ammesso che a quel punto abbiano ancora il carburante, in un panorama di default a catena). I grandi usurai ci metterebbero nella lista nera dei Paesi a cui non si presta più.
Ma dietro le minacce, ci sarebbe l’implorazione tipica della finanza terminale: per favore, continuate a servire il vostro debito almeno in parte, almeno al 70%, almeno al 30%. Perchè i mercati che ora ci puniscono, sarebbero puniti dal grande debitore insolvente e sovrano. Accederebbero ad una ristrutturazione del debito; anzi, dopo alcuni mesi, constatata la nostra ripresa industriale e dell’export, e la relativa salute e scarsa esposizione delle nostre banche (a quel punto, non si chiamerà più arretratezza), verrebbero col cappello in mano ad offrirci capitali da far fruttare. In fondo, hanno fatto lo stesso con l’Argentina, riammessa nel gran casinò del credito dopo due-tre anni di esclusione dal credito globale; e l’Argentina non è come l’Italia la sesta potenza industriale. Esporta però grani e carni, con cui introita valute forti, e ha pure il petrolio.
Questo è il punto debole della nostra economia reale. Non siamo autosufficienti in quanto a prodotti agricoli (ma è anche vero che gli studi di settore, che in tempo di crisi hanno strangolato con richieste fiscali gli agricoltori che non hanno più profitti, stanno conducendo a lasciare incolti gli ettari). Siamo il Paese più sofisticato in tema energetico: dipendenti al 100% da petrolio e gas estero, da pagare in valuta forte, per di più usiamo il prezioso gas, anzichè per trasformarlo in prodotti, per riscaldare, perchè è pulito ed ecologico. E’ come alimentare il camino con biglietti da 10 euro.
Dovrà finire: i carburanti caramente pagati dovranno servire alla produzione industriale volta all’export. E’ da prevedere un rincaro astronomico di carburanti per auto e riscaldamento. E forse, nei due anni di stretta tragica di cinghia, qualche ecologista forse cambierà idea sul nucleare, che avrebbe ridotto la nostra dipendenza dall’estero. Perchè sì, il nucleare è tossico e pericoloso, ma anche non poter accendere la luce e morire di freddo d’inverno nelle grandi città del nord, non è esattamente salutare. Andrà meglio nel Sud dall’inverno mite, e nell’Italia antica con le piccole città a misura d’uomo, dove, volendo, si può camminare a piedi da un capo all’altro.
In caso di default, lo Stato avrà dal 20% al 50% di soldi in meno da spendere (a credito): tragedia. Ma proprio qui, contrariamente agli inglesi e agli svizzeri, abbiamo il grasso che cola, nelle caste pubbliche inadempienti da far dimagrire. Sono caste potenti, capaci di proteste corporative efficaci, tanto più che hanno in mano la legalità e le leve del potere pubblico, e cercherebbero di mantenere i loro privilegi indebiti e i loro emolumenti miliardari ad ogni costo, a spese di una popolazione che affronterebbe i due anni più duri della nostra storia.
Qui, sarà essenziale la qualità del governo tornato sovrano, nel resistere alle pressioni dei ricchi pubblici e nell’organizzare invece, con le poche risorse, il soccorso delle vere categorie deboli, anziani, pensionati travolti dall’inflazione, lavoratori disoccupati, famiglie coi risparmi limati (in compenso, i giovani avranno una nuova speranza, liberati dal debito che grava sulla loro generazione).
La qualità del governo, capace di imporre la giustizia sociale in stato di guerra; è la vera risorsa scarsa, me ne rendo conto. Solo uno Stato nuovamente responsabile, patriottico e solidale dovrebbe accompagnare una ordinata decrescita dell’economia superflua (meno auto e più treni), snellire la pletorica burocrazia, identificare i settori da rilanciare (con un vero investimento sul turismo, ossia sulla buona educazione nazionale), puntare all’autosufficienza agricola. E’ difficile, ma chissà.
Il fatto è che occorre far presto, a prendere una decisione dura e difficilissima, per la quale non siamo preparati come popolo, nè come classe (cosiddetta) dirigente; ma che comunque è scritta nelle cose: gli Stati Uniti stanno già facendo bancarotta senza dirlo, stampando 900 miliardi di dollari di cartamoneta per pagare i loro conti; la Grecia dovrà uscire dall’euro prima di noi (il PIL è crollato del 4,5% in un anno, e il deficit aumenta nonostante il presunto salvataggio europeo), e probabilmente prima dell’Irlanda, che comunque seguirà; e a quel punto, il default del Portogallo e della grossa Spagna sono ineluttabili, e ciascuno di quei Paesi tornerà alla propria moneta. (What Country is Next in the Coming Pan-European Sovereign Debt Crisis?) | (Ovebanked, Underfunded, and Overly Optimistic: The New Face of Sovereign Europe)
Perchè occorre far presto? Ho detto sopra che siamo ancora una potenza industriale esportatrice di tutto rispetto. Quell’ancora non è per sempre. Ci stanno devastando il tessuto industriale la competizione tedesca (l’euro è la sua moneta, e la favorisce), l’euro troppo forte che non possiamo stampare a volontà, la crisi mondiale che riduce gli sbocchi, e infine una fiscalità punitiva che (con gli studi di settore, usati dal fisco a rovescio) strangola le piccole imprese esigendo prelievi da profitti che non esistono più, e – anzichè sostenerle nella crisi – le induce a chiudere, o a delocalizzare – persino in Canton Ticino.
Il tempo di una generazione, e le competenze imprenditoriali, industriali, operaie si perdono. A quel punto saremo un Paese della fascia 3, ma senza manodopera capace tipo Grecia.
Paolo Savona, ex ministro e presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, ha proposto che l’Italia si liberi del “cappio europeo che si va stringendo al collo”, considerando la convenienza di uscire dall’Euro o dall’Unione. Si tratta della prima figura autorevole, rappresentativa di una parte dell’establishment politico-economico, a rompere il tabù imposto negli ultimi vent’anni, e a mettere in discussione una scelta che per l’Italia si sta rivelando sempre più disastrosa.
In una lettera al direttore de Il Foglio, Savona ha scritto il 10 novembre che entrando nell’Euro fin dalla sua nascita, l’Italia ha accettato “il vincolo esterno nella promessa di un futuro migliore che non si è realizzato; anzi stringe la corda attorno al collo che si è volontariamente posta”.
Ben presto si è capito che una moneta senza governo non avrebbe funzionato; data l’impossibilità di governare la moneta con un organismo politico, fu introdotta una “governance delle regole”, e cioè i parametri di Maastricht e il Patto di Stabilità. Però il meccanismo è fallito e ora si cerca di riformarlo senza passare per i Parlamenti, come prevede il Trattato, e farlo approvare direttamente dai capi di Stato. “Dal governo delle regole si passa al governo del loro aggiramento. L’Italia si troverà di fronte a uno di quei momenti storici che richiedono una scelta importante (…).
“Anche se si fa finta che il problema non esista, il cappio europeo si va stringendo attorno al collo dell’Italia. È giunto il momento di comprendere che cosa stia effettivamente succedendo nella revisione del Trattato di cui si parla e nella realtà delle cose europee, prendendo le necessarie decisioni; compresa quella di esaminare l’opportunità di restare o meno nell’Unione o nella sola euro area, come ha fatto e fa il Regno Unito gestendo autonomamente tassi di interesse, creazione monetaria e rapporti di cambio. Se l’Italia decidesse di seguire il Regno Unito – ma questa scelta va seriamente studiata – essa attraverserebbe certamente una gravi crisi di adattamento, con danni immediati ma effetti salutari, quelli che ci sono finora mancati: sostituirebbe infatti il poco dignitoso vincolo esterno con una diretta responsabilità di governo dei gruppi dirigenti. Si aprirebbe così la possibilità di sostituire a un sicuro declino un futuro migliore attraverso il re impossessamento della sovranità di esercitare scelte economiche autonome, comprese quelle riguardanti le alleanze globali”.
Mentre Savona ha auspicato un dibattito nazionale su questo tema, nessuno dei vari Giavazzi, Boeri ecc. ha avuto il coraggio di rispondere. Lo ha fatto Giorgio La Malfa, antico collega e amico di Savona, il quale ha scritto che “un Paese governato seriamente potrebbe scegliere la strada che oggi suggerisce Savona”. Ma teme che “il problema della partecipazione/esclusione dall’euro possa essere il detonatore della divisione del Paese fra una parte che si sente in condizioni di condividere le politiche della Germania e una parte che non è in condizioni di farlo”. Per cui, “non abbiamo alternative, oggi come oggi, alla partecipazione all’euro”.
L’argomento di La Malfa è in realtà stato confezionato da ambienti filo-separatisti come l’Economist e la Commissione EU di Barroso, ed è il contrario della realtà. L’Euro ha provocato un decennio di declino economico che ha aumentato il divario nord-sud; se cerchiamo un detonatore della spaccatura finale del paese va cercata proprio nella permanenza nell’Eurozona. La stretta deflazionistica che si preannuncia, blindata dalla riforma del Patto denunciata da Savona, non farà che esasperare il divario nord-sud e far crollare la capacità di sostenere gli squilibri nazionali.
Ironicamente, il vantaggio supremo dell’uscita dall’Euro non è affrontato nemmeno da Savona: si tratta del ripristino del credito pubblico sovrano, e quindi della capacità di finanziare investimenti su larga scala per garantire la ripresa.
Maurizio Blondet