Notte d’amore.. (con) Veronica… di Simone Sutra
Notte d’amore
Ashtri e Nahir si erano allontanate dal sentiero nel bosco, a caccia di fragole. Quelle ombre di frasche, quelle alte ramaie, quei giovani virgulti che sembravano scaturire per magia dalla terra, quel mistero appostato dietro ogni tronco, ogni alto stelo d’erba, non poteva che conquistare due ragazze di diciassette e diciannove anni, curiose sorelle d’anima ancor più che di sangue.
Con il brivido dell’eccitazione in cuore si inoltrarono nel fitto del bosco, pronte ad assaporare pienamente il gusto del proibito, a sentire l’eccitazione dell’ignoto.
Ed ecco che i loro occhi si fanno ardenti di anticipazione, ecco che il loro cuore palpita di emozione, il loro corpo vibra di un’energia a loro sconosciuta, che sembra trapelare dalla parte più nascosta di loro e trasudare sulla pelle già stremata dallo slancio della scoperta.
Cadono le tenebre e le stelle misericordiose spuntano a salutarle e loro ancora camminano, camminano, in un silenzio mai provato, mai così imperioso sul cuore e sulle bocche. Stanchezza non ce n’è; hanno dimenticato di aver lasciato dietro di loro una casa, una madre e un padre, una vita riparata e abitudinaria. Camminano le audaci sorelle tracciando nel terreno un percorso sacro di cui ad ogni passo si sentono più portatrici: a loro è affidata la missione di scoprire i propri limiti e i propri segreti interrogativi, a versarli generosamente dinanzi alla fonte in cui tutto è chiaro, affinchè si possano specchiare e scoprirsi limpide estensioni di un dolce universo intriso d’amore, impregnato di musica silenziosa.
Occhi lucenti nel cielo a testimoniare il loro supremo donarsi, il loro svestirsi di abiti non più consoni al loro ritrovarsi, al loro immergersi in un cielo senza limiti, in una vita senza più perchè. Il sorriso della notte accoglie benevolo la loro nudità, il loro sprofondare nelle acque serene in cui scorre il senso al di là di ogni senso.
E s’innalza da lontano una melodia che avvolge ogni buio angolo di selva, e sorge un astro che sbianca la notte; e dal cuore di due fanciulle adesso sgorga l’amore, e un sorriso che non lascia il volto, che bagna l’anima irrorata dalle gioiose lacrime di due stelle in cielo.
……………
Veronica
Flora percorreva gli ordinati vialetti del giardino rinascimentale di Villa Ghirlanda, costeggiati da altrettanto ordinate aiuole popolate da siepi di bosso e rosai, cipressi nani e tassi pluricentenari. Qualche statua di nude divinità greche qua e là punteggiava l’austero panorama, e il gorgoglìo delle quattro monumentali fontane poste ai quattro punti cardinali ricordava che la vita è vita anche fra le pietre. Le piaceva il suono della ghiaia fine che i giardinieri avevano da poco steso: le sembrava che il lieve scricchiolio dei sassolini sotto i suoi piedi le rimandasse l’eco dei suoi pensieri, leggeri ma dotati di una loro materialità insistente…perfino un po’ invadente, quel giorno.
Flora era sempre stata una ragazza spensierata, nonostante l’educazione un po’ severa impartitale per volere della sua aristocratica zia, la marchesa Bentivoglio, spigolosa e formale, che però le voleva un gran bene dopo e che, dopo la morte di entrambi i genitori in un incidente stradale, l’aveva accolta come se fosse stata sua figlia nel palazzo Torrenieri di Fossalta. Le aveva riservato i migliori educatori privati, gli agi e anzi gli sfarzi di un vita vissuta all’ombra dello stemma di un’antica nobiltà, fino ad accompagnarla alle soglie del matrimonio con il conte Vittorio Emanuele Botticelli di Ponsacco, di cui ora Flora era la legittima consorte, in dolce attesa.
Ventitre anni, si diceva, sono proprio l’età giusta per avere un bambino: non si è nè troppo giovani nè troppo vecchie, proprio l’età giusta.
Ma qualcosa la turbava, mentre, camminando lentamente e un po’ svagata, si teneva il pancione ormai straripante di quasi nove mesi. Quell’uomo a cui era stata destinata sin da giovinetta…quel suo marito, di diciotto anni più vecchio di lei…ecco, non riusciva ad amarlo, a sentirlo suo. Era un uomo molto occupato, dedito agli impegni sempre molto pressanti della gestione di un’importante azienda vinicola; ma sembrava che anche quel poco tempo che le dedicava le fosse offerto di malavoglia, come un doveroso ma risentito sacrificio da effettuarsi agli dei altezzosi di un focolare stranito, algido come il talamo nuziale che egli per la verità disertava piuttosto spesso; non che questo facesse molta differenza, visto che anche quando c’era….
Ma lasciamo perdere, si disse lei, cercando di concentrarsi sul pensiero piacevole del prossimo lieto evento; sarebbe stata una femmina, e aveva deciso di chiamarla Veronica, con il consenso frettoloso e un po’ distante del marito.
Il cellulare mandò il segnale di un messaggio in arrivo. Si chiese chi potesse essere: forse Caterina D’Annunzio, la sua migliore amica ed ex compagna di liceo, con cui ancora si vedeva e si sentiva occasionalmente.
“Tesoro, ci vediamo stasera alle otto, al solito posto. Non tardare! E mettiti le cosine che sai….” Era di suo marito.
“Tesoro”? “Solito posto”? “Cosine che sai”? Ma che significava, cos’era, uno scherzo? Da quando in qua lui la chiamava “tesoro”? E quale sarebbe poi dovuto essere il “solito posto”? E cosa mai potevano essere quelle “cosine” che chiaramente si riferivano ad indumenti intimi? Non ci capiva niente. Poi la verità cominciò ad albeggiare sulla sua mente.
Il messaggio era destinato ad un’altra e chiaramente suo marito, frettoloso e stressato come sempre, aveva digitato il tasto sbagliato sulla rubrica. Evidentemente il nome dell’altra veniva subito prima o subito dopo il suo nella rubrica. Il cellulare squillò.
“Flora?” Era sempre lui.
“Sì” rispose lei con un filo di voce.
“Scusami ma stasera non ci sarò a cena…una riunione importante, sai quei compratori russi….”
“Capisco” Riuscì solo a dire lei con voce strozzata.
“Bene.Tutto a posto lì? Il bambino è ancora dentro?”
“E’ una bambina, Vittorio” rispose sentendo l’ira montarle in petto.
“Ma sì, ma certo! Bene, riguardati. E non mi aspettare sveglia, credo che farò tardi. Ciao!”
Si diresse verso la grande casa come in trance, confusa, sconcertata, incredula. Nemmeno lei sapeva ciò che le sentiva agitarsi in petto, non sapeva dare un nome a quel sentimento furibondo che le stava scalzando il terreno sotto i piedi. D’impulso, passando davanti al cancello d’ingresso, vi fu addosso, lo aperse con furia cieca e fu subito fuori in strada, correndo lungo il viale alberato in leggera discesa che dopo aver compiuto un lungo giro intorno alla vasta proprietà dei conti Botticelli puntava verso la città sottostante la collina su cui si ergeva la villa. Laggiù le prime luci si accendevano per dissipare le tenebre incipienti di un crepuscolo autunnale, e lei correva con il cuore in gola verso il vuoto. Lo stesso vuoto che avvolgeva ogni cellula del suo corpo; quel vuoto atroce, martellante, penetrante, rimbombante. Quel vuoto che sembrava lanciare urla che rimbalzavano violente contro lo specchio della sua coscienza, assordandola con il loro inutile disperarsi; che si volgeva su di lei, per schiacciarla sotto il peso della sua nullità; che mordeva e graffiava, feroce belva scatenata d’improvviso. In un istante fu soverchiata da tutto quel vuoto, il perfetto simulacro di un’esistenza ordinata come quel parco della villa, la sua: sempre obbediente e remissiva, si era piegata alla volontà di tutti coloro che avevano disposto della sua vita, per farne un’immagine da cartolina, il ricamo di un centrino da tavola. E allora tutto di quella vita, i ricevimenti, gli onori, gli agi, i sorrisi di plastica, le maschere incollate al vero volto delle persone che la popolavano… le insulse facezie, le vacue conversazioni, le riunioni fra amiche per il tè, i balli, le cene di beneficenza, i servili sguardi di chi adulava, la superbia di chi concedeva favori, gli occhi da pesce lesso di un imbalsamato ammiratore, gli inchini, i baciamano…tutto iniziò a ondeggiare in un vortice isterico allineato su di un tracciato mortale che le stringeva un cerchio attorno al cuore, alla testa, alla gola. Sempre più stretto il cerchio, sempre più veloci le immagini, sempre più stridenti le risa selvagge di ombre sconosciute, sempre più ossessive le musiche impazzite ormai sfuggite alle mani sapienti del loro orchestrante, i volti , gli occhi, le mani, il buio, il buio….
Finchè stramazzò a terra sciogliendosi in una cascata di singhiozzi. E le fonti dell’abisso della sua anima si riversarono su di lei, inondandole tutto l’essere. Si sentiva onda del mare sbattuta dalla tempesta, pozzo non visitato da nessuno spicchio di luna, acque infide e traditrici di fiumi in piena, melmosi torrenti gonfi dell’irosa corrente della pioggia d’autunno. Nessuna speranza, nessuna speranza….
Non si accorse nemmeno, affondata com’era nella sua apocalisse, che una macchina si era fermata e ne era scesa una giovane donna, snella e scura di pelle, lunghi capelli crespi nerissimi.
“Madre mìa! Que hace aquì, senora?” Le era sfuggita la frase accorata nella sua lingua, d’impulso, sbigottita dalla visione di quella ragazza in ginocchioni a terra, scossa da capo a piedi dai sussulti delle lacrime e in avanzato stato di gravidanza.
“Signora, signora…ma lei è incinta! Che fa qui per terra?” Le pose le braccia attorno alle spalle, tentò di sollevarla, rendendosi conto che Flora era del tutto fuori di sè. Fu allora che Flora sentì. Lei sentì il figlio che premeva per uscire, e fu allora che tutte le scene vissute nella sua mente si riavvolsero a velocità supersonica come una pellicola fatta scorre all’incontrario, e il vortice riprese a girare nel senso contrario, riportandola rapidamente ai prati della sua infanzia, ai leggiadri panorami di giorni soleggiati senza fine, alle serene contemplazioni di gioie semplici e rassicuranti.
Si svegliò nella stanzetta d’ospedale, con la giovane latinoamericana che la guardava dolcemente.
“Si è svegliata….come sta, signora? E’ andato tutto bene…e la sua bambina è bellissima”
“Chi…chi è lei? E dov’è la mia bambina?”
“Nella nursery, signora…siamo all’ospedale dei Cavalieri di Malta…il più vicino che c’era. Io lavoro qui, faccio l’infermiera, e ce l’ho portata io: stavo proprio venendo qui quando l’ho trovata ieri sera. L’ho raccolta per strada in uno stato pietoso. Mi chiamo Teresita Nunez, e ho potuto assisterla nel parto insieme al dottore…ma lei certo non si ricorda nulla. Era sotto shock…ma sono felice di vedere che sta molto meglio”
Flora abbozzò un debole sorriso.
“Vorrei…vedere la mia bambina”
“Certo! Glie la porto subito!”
Veronica dormiva beata, ma quando Flora, sopraffatta da una gioia incontenibile, se la poggiò sul seno, aperse gli occhi.
E Flora, di nuovo, vide. Ma non solo lei: anche Teresita vide. Perchè il mondo, attraverso gli occhi di una bambina, si era trasformato; e praterie e montagne avvolte dalla bruma, sogni multicolori e visi di antica saggezza, tenui aurore e tramonti infuocati si distendevano lungo l’arco inesausto dell’amore, in una piccola stanzetta d’ospedale.
Simone Sutra – itdavol@tin.it