Straniero… ma non troppo – Un racconto di Simone Sutra
Non se lo ricordava così ampio, lo stradone sterrato che, divincolandosi con fatica dall’abbraccio della piazza, succube dell’ombra del campanile, correva parallelo all’argine del Po, e poi si tuffava con delizia, almeno così sembrava, nella pianura distesa tra vigne e campi di grano, per arrivare alla “grande” città. Certo, per lui, quando era ragazzino, anche quell’anonima città di provincia era una metropoli, ma solo per sentito dire, visto che non c’era mai stato.
“Ah, la devi vedere, la città” gli diceva suo padre, mercante di vini. “Vedrai che un giorno che sul biroccio c’ho un po’ più di posto ti ci porto, ti ci porto….oppure ti carico sul carretto degli Algeri che quasi sempre vanno quando vado io….ma la città, ah, la città, la devi vedere…la Piazza Grande, il giorno di mercato…tutti intabarrati i contadini, i mercanti e i sensali se ne stanno lì a chiacchierare fitto fitto, a contrattare, a bestemmiare, a gridare, ad accusarsi, a fare gestacci….e poi all’osteria diventano tutti amici davanti a un bicchiere di lambrusco!”
Ma con una scusa o l’altra non ce l’aveva mai portato…e la città aveva dovuta scoprirla da solo, a 18 anni, quando per partire militare aveva dovuto prendere il treno alla stazione della “grande” città. Si ricordava ancora la corriera panciuta che ce l’aveva portato dal paese, con il bagagliaio sul tetto ingombro di valigie di cartone, di cavagni, di sporte, di pacchi pacchetti e pacchettini. Si ricordava ancora il sapore della polvere che aveva respirato dal finestrino aperto agitando la mano disperatamente per salutare i suoi, con addosso un magone da morire e in gola il sapore amaro delle lacrime, nel cuore le paure di un ragazzo che non aveva mai superato i confini del paese e delle sue campagne. Ma adesso passava davanti al casolare dei Ruozi, e gli venne voglia di fare capolino per vedere se il vecchio Pinìn era ancora vivo, ancora lì che lavorava con le vacche.
Nella calura di luglio l’effluvio del letame dietro l’aia saturava le narici, l’aria e tutto l’universo, ma era un olezzo grato, perché era uno di quegli odori che lo facevano sentire impregnato fino al midollo di quella vita di campagna che ti faceva pulsare le vene, che ti inebriava con la fragranza del fieno appena tagliato, con il penetrante odore del mosto nelle vascone della cantina sociale, con l’assordante concerto delle cicale in estate.
Mentre si avvicinava alla stalla un fruscìo di gonne lo fece sussultare: possibile che fosse…?
Ma sì, era lei, era lei! Era Vivetta, che svoltava in quel momento l’angolo del pollaio, con un canestro pieno di uova . D’istinto gli venne di nascondersi, non sapeva neanche lui perché, dietro il tronco del pioppo per vederla passare senza essere visto. Com’era bella! Sembrava che neanche un giorno fosse passato da quella sera d’agosto quando, alla sagra del paese, avevano ballato ballato e poi ancora ballato fino a farsi venire quasi le vesciche ai piedi. E lei rideva, contenta della vita e di lui….poi i primi baci rubati, poi la corsa nei campi sotto la luna, poi l’amore sull’erba che già si inumidiva di rugiada….
“Non ce l’ha fatta” disse il paramedico al collega, scostando le piastre di rianimazione ormai inutili.
“Poveraccio” commentò l’altro, gettando uno sguardo distratto all’abitacolo della vettura schiacciata da cui lo avevano estratto a fatica. E lo copersero con un lenzuolo bianco.
Simone Sutra – itadavol@tin.it