“Chi ha orecchi da udire…” – Dialogo immaginario tra Federico II di Svevia e Slavone di Baviera

Lunario Paolo D'Arpini 20 settembre 2010

Passeggiavano, nel chiostro del convento, Federico II di Svevia e Slavone di Baviera. Strani amici essi erano invero: un monarca dai domini vasti e ricchi e  un monaco cistercense, privo di prestigio e di titoli, di munificenti protettori e di parentele di  pecunia.

Eppure quando essi erano immersi nei loro dialoghi  tutto il mondo attorno a loro pareva perdere consistenza, o piuttosto attenuarsi in una sospensione vaporosa, in una sorta di nebulosa opalescenza. Niente più contava, se non le parole e le idee che fluivano liberamente e senza costrizioni fra loro, dando vita a pensieri che a malapena si potevano definire di questo mondo.

Rinchiusi in quei due corpi così dissimili vibravano due essenze gemelle, identiche nella loro diversità.

Non dimenticava Federico che Slavone gli aveva salvata la vita quel giorno della parata, fra garruli stendardi e grida di popolo, mentre le damigelle stringendo il fazzoletto alla bocca comprimevano  a forza le labbra da cui forse avrebbe voluto sfuggire un languido bacio diretto al bel Federico, e scudieri e vassalli annunciavano le lodi del loro signore, quando una freccia infida scoccata da un arco traditore si stava facendo strada verso il suo cuore.

Non si sa come, non è mai stato spiegato e forse mai lo sarà, Slavone la vide arrivare e d’impeto andò a trascinare giù da cavallo l’imperatore, rimanendo lui stesso altrettanto sbalordito dal suo gesto quanto tutti gli astanti.  Ma fu subito chiaro a tutti che l’impudenza del monaco aveva salvato l’imperatore quando la freccia andò a colpire il paggio di Federico, che lo seguiva sul suo destriero a pochi passi,  dandogli morte istantanea. 

“E così, Slavone, tu asserisci di poter udire la musica delle sfere, di cui l’ineguagliato Pitagora afferrò il senso proiettato sul davanzale del mondo, aperto alla vista dell’anima, senza che nessuno riesca ad oltraggiare a sufficienza il buon senso per percepirla?”

“Sì, Maestà, io l’ho udita. E’ nelle notti più solitarie, allorchè il carico di affanni e di idee della giornata cessa di affollarsi alle porte della mente, che la spossatezza del corpo lascia spazio alla dolcezza misteriosa e struggente che si affaccia dalle insondate profondità dell’essere; Allora la sperdutà virtù dell’amore celeste tocca con corde sottili e delicate la mia anima…e io resto là, solo fuori dalla porta del mondo, in bilico su di universi sconosciuti; e ascolto….”

“E dunque sarebbe quella stessa traccia luminosa che lascia una scia nel tuo cuore che quel giorno ti ha portato, come dicesti, a percepire l’arrivo di quella freccia?”

“Ahimè, Maestà! Nel grande Libro dei Proverbi di Salomone è scritto che è impossibile discernere la traccia che l’uomo lascia nella giovane….quanto più raddrizzare i tortuosi percorsi del cosmo, quand’essi si intrecciano con l’umile fango della natura umana! Accettare la meraviglia senza tentare di capirla è il nostro atto d’amore più grande per un Creatore le cui vie sono più alte delle nostre quanto i cieli lo sono rispetto alla terra.”

“Slavone…la conoscenza ci è stata data per gettare un ponte fra il non detto e l’indicibile… ricorda che l’uomo è fatto ad immagine di Dio, ed in lui Egli si rispecchia. Se il nostro amore consiste nell’accettare con cuore grato le sublimi manifestazioni della Sua Saggezza, il Suo consiste nell’accompagnare l’uomo verso la Verità…”

“Vero, Maestà; anche se vi sono cose che, forse per il nostro stesso bene, è meglio lasciare là dove sono….del resto tutta l’Eternità ci è data a questo scopo. Però posso darvi ragione per ciò che concerne il Dio che è fatto ad immagine dell’uomo: riconciliare i segreti del cosmo con  le istanze sgorgate dal cuore dell’uomo allora non è così difficile: perchè le due cose si incontrano a metà strada fra la terra e il cielo, e il loro senso familiare riecheggia nella mente come da epoche lontanissime ma sempre presenti con noi.”

“Sì, sì, lo sposalizio dei cieli, la congiunzione degli opposti…il serpente che si morde la coda…miracolo delle polarità che si integrano, dei due che sono uno, della dolcezza di un cuore di donna che acquieta l’aggressività dell’uomo…e infine il buio caldo del suo corpo che alloggia, per una notte o una vita, tutte le perplessità, le incertezze, i pavori  di lui; che da forestiero e pellegrino a sè stesso si diventa conosciuto tramite l’amore di lei. E così dalle tenebre sgorga la luce. Ah, quante cose, quante cose, Slavone…sembra che il tempo ci manchi per penetrare i recessi della sapienza…abbiamo bisogno di coraggio, perchè i numi tutelari della stoltezza sono sempre all’opera per tentare di distogliere il cercatore dal suo Graal personale.”

“Coraggio, forse, più che altro di essere se stessi…in un mondo intabarrato nell’ignoranza, che tende agguati a se stesso non riconoscendosi nell’ombra che gli si stende davanti, è del massimo valore il detto delfico: uomo, conosci te stesso….”

“…..E possiederai le chiavi dell’Universo”

“…..Che si stende immenso dentro di noi”

“Dunque guardare? ….Osservare?”

“Vedere, Sire”

Un nuovo sguardo animava gli occhi e il volto di Federico mentre lasciava l’abbazia. Ed egli vedeva che il Sole era luminoso, che l’erba era verde, che il cielo era blu. E che la musica delle sfere, se pur era quella, gli lasciava una traccia d’amore nel cuore, e un canto sulle labbra.

 

Simone Sutra – itdavol@tin.it

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