Visite: “Il cantastorie che conosceva i segreti dei campi di realtà diversificati…” – di Simone Sutra

Lunario Paolo D'Arpini 10 giugno 2010

     Si avvicinava l’ora del crepuscolo, e Rufus Badamònt rientrò in casa. Sembrava non stancarsi mai di rimirare per un tempo che sembrava infinito – come aveva fatto fino a pochi attimi prima – la lunga pianura che si stendeva a perdita d’occhio davanti alla sua casa, una verde distesa intervallata da radi alberi e da ancora più rare case coloniche; il rosseggiare delle stoppie, lo scurirsi graduale delle foglie sugli alberi erano poi il segnale che era ora di rientrare, di preparare la sua  semplice e solitaria cena, di sedersi a un tavolo vuoto e di masticare piano quel cibo sempre così poco appetitoso, quasi a non voler esorcizzare le sottili, impalpabili presenze che gli erano unica compagnia.

 

     Da quando Alice non c’era più tutto ciò era diventato un rituale per lui, irrinunciabile quanto doloroso: gli sembrava che riempirsi gli occhi di uno spazio così grande sostituisse in qualche modo il senso di vuoto che provava ormai da qualche mese, parecchi mesi, anzi.

 

     Il ticchettìo dell’orologio sul ripiano del caminetto, il crepitare del fuoco, l’ultimo canto degli uccelli che si preparavano per la notte scandivano le sue serate sempre uguali, ormai da tanto, troppo tempo. Il blando ritmo di ogni cosa e il lento scorrere e l’accavallarsi di eventi insignificanti aveva assuefatto Rufus a una specie di dormiveglia perpetuo e cosciente, da cui raramente emergeva per badare alle necessità giornaliere.

 

     Un bussare alla porta. Meraviglia, stupore, tumulto nel cuore. L’imprevisto aveva squarciato lo sfondo della mente di Rufus come un lampo che lacera un pezzo di cielo.

 

     Quasi senza credere a ciò che stava facendo si avvicinò, lentamente, alla porta; e ancor più lentamente la dischiuse, guardando fuori senza aprirla del tutto.

 

     “Buona serata, signore. Non sono di queste parti, e non nego che un pasto caldo e un buon letto mi andrebbero più che bene”.

 

     Queste parole, dette senza incertezza e senza alcun accenno di timidezza o di imbarazzo, erano state pronunciate da un anziano male in arnese, con una sorta di borsa da viaggio di tela sdrucita appesa a tracolla. Inutile accennare al suo abbigliamento, del tutto trascurabile e perfettamente in sintonia con il personaggio; e, in fin dei conti, completamente irrilevante ai fini della narrazione della nostra storia.

 

     Mille pensieri attraversarono la mente di Rufus:

 

     “Ma come, costui si presenta così, un perfetto conosciuto e si aspetta che io…d’altra parte sembra ne abbia davvero bisogno….ma che faccia tosta, in fin dei conti è un vagabondo…però, poveretto, è abbastanza malconcio….insomma si rende conto di mettermi in una situazione difficile?…ma è tardi, fa freddo, e forse pioverà….”

 

     Non si era reso conto che nel corso di tutte queste elucubrazioni mentali si era inavvertitamente fatto da parte e, di fatto, l’ometto si era già accomodato nell’ingresso. Dato il fatto compiuto, non gli restò che chiudere la porta, chiedendosi se fosse rincretinito o meno, ma non osando scacciare l’anziano: qualcosa lo teneva come prigioniero, una qualche forza sconosciuta che gli impediva di ribellarsi a tutto ciò, e gli imponeva solo di seguire gli eventi come se lui ne fosse un osservatore esterno. 

 

     “La sua eccelsa gentilezza mi commuove nel profondo del cuore, signore; e sia ben certo che la mia gratitudine non tarderà a palesarsi”.

 

     Dette queste parole con il fare di un perfetto gentiluomo e avendole accompagnate con una leggero accenno di riverenza all’indirizzo di Rufus, lo sconosciuto si accomodò alla tavola, su cui ancora faceva bella mostra di sè la panciuta zuppiera della minestra di fave e cipolle.

 

     “Il suo nome….”incominciò a dire Rufus, ancora tramortito dalla piega che avevano preso le cose e ancora più sconcertato dal linguaggio forbito esibito dal vagabondo.

 

     “Oh! Il nome! E cosa può essere mai un nome, signor mio, se non un’accozzaglia di lettere che noi prendiamo a prestito come un vestito, che indossiamo per un po’ finchè non se ne è esaurita l’utilità! E poi, quanti nomi, quante vite può vivere un uomo? A me sembra di averne vissute talmente tante che se ad ognuna di esse avessi dovuto affibbiare un nome, caro lei, li avrei esauriti già da un pezzo.”

 

     Rufus si vergognò un po’ di avere posta la domanda, mentre il nuovo arrivato affondava risolutamente il cucchiaio direttamente nella zuppiera, visto che di piatti sulla tavola non ce n’erano tranne quello di Rufus.

 

     Lo sbalordito padrone di casa si sedette a tavola in silenzio mentre il vecchio sembrava aver messo in opera un’idrovora nella bocca, e risucchiava avidamente il contenuto della zuppiera, continuando diligentemente e alacramente nel suo compito finchè essa non fu svuotata. Il mezzo filone di pane che era posato accanto alla zuppiera scomparve anch’esso in men che non si dica nell’ antro cavernoso sottostante il palato dell’uomo, che alla fine, con aria solenne, volse gli occhi al cielo.

 

     “Sia benedetto il padrone di questa augusta dimora, e sia celebrata la sua ospitalità!”

 

     “Ma lei….” accennò a dire il padrone di casa.

 

     “Sì, signore, ha visto bene” lo interruppe l’ospite inatteso. “Sono qui per rispondere ai misteriosi risvolti della vita, che chiama i suoi figli con voce musicale e colorata; e con brusche frenate o vertiginose ripartenze, inaspettate impennate e curve da togliere il fiato li riconduce a quell’ordine che spetta ad ognuno, e di cui ognuno è in fondo padrone pur senza conoscerlo”

 

     La velocità con cui l’uomo aveva espresso la complicata sequela di concetti aveva lasciato Rufus a bocca aperta. Il vecchietto ne approfittò per continuare:

 

     “Sì, caro mio, io sono un cantastorie: e in ogni casa che mi riceve mi impegno a lasciare, come giusto pagamento, una storia. Se sarà bella o brutta, corta o lunga, luminosa o tenebrosa, chiara od oscura, io non me ne curo: storia deve essere, e storia sarà, prendere o lasciare.”

 

     Come in trance Rufus si sedette nella poltrona dell’angolo del salotto, ormai totalmente disarmato di ogni velleità di resistenza a quello strano evento che lo andava travolgendo e avviluppando sempre più; e privato, come sembrava, da una qualche forza superiore, della tentazione di qualsiasi  cedimento alla logica non potè che aspettare il pagamento promesso dallo sconosciuto.

 

     “C’era una volta…..” esordì l’ometto, mentre a Rufus parve che proprio in quell’istante lo sconosciuto prendesse come a pulsare di luce, e le sue vesti si rivelassero sontuose e coloratissime, e impreziosite da gioielli e fregi d’oro; ma fu un batter di ciglia, dopodichè il vagabondo tornò ad essere quel vagabondo che poi forse non era.

 

     “…sì, direi che …una principessa va bene. C’era una volta una principessa… la chiameremo Sophia. In questo caso il nome ha una sua importanza: come vede, non tutti i casi sono uguali, come sosteneva il famoso giurista.”

 

     “Quale?” Interloquì Rufus, che si piccava di essere un esperto di leggi e regolamenti.

 

     “Ora mi sfugge il nome… qualcosa che iniziava con una P … o forse era una R? Ma non importa, poi ci verrà in mente, dico bene?”

 

     Rufus spalancò le braccia stringendosi al contempo nelle spalle con espressione incerta.

 

     “Sì, sì, ora dobbiamo procedere con ordine, senza dar retta al canto delle sirene della precisione” asserì l’anziano individuo con una certa autorevolezza. “Pedanterie, cavilli, minuziosità pignole… tutte inezie, dico io; di tutto ciò non faremo caso affatto. Ma torniamo a noi. La principessa, dunque.”

 

     La narrazione del vecchio prese un tono cantilenante, come se una musica sottile ne accompagnasse le battute e il ritmo; e a Rufus pareva quasi di udirla, poichè essa prendeva essenza percettibile scaturendo dall’intonazione, dagli accenti e dalle pause nella narrazione e facendosi tutt’uno con esse. Comprese allora perchè l’uomo si era definito cantastorie pur non accompagnandosi con nessun strumento. 

 

     “Sophia, proprio lei, era nata blu. Blu, dirà lei, è impossibile! Ebbene, caro mio, la differenza tra ciò che è possibile e ciò che noi non definiamo tale, come vedrà, è ben più sottile di quanto si immagini! In ogni caso, in questa storia, Sophia era proprio blu. Da ciò dedussero i suoi genitori che fosse un essere speciale, una predestinata.

 

     “Questa bambina crebbe in una ragazza gracile e delicata, ma di una sensibilità straordinaria; amava ogni singola creatura al mondo, e ad ognuna dedicava un sorriso. Ella divorava libri ed univa alla singolare bellezza un intelletto elevato, e un’anima nobile.

 

     “Un giorno se ne andò. Come, se ne andò? chiederà lei: non erano forse i suoi genitori sovrani di un ricco e potente regno? E’ così, è così….chi può mai dire quale sia il concetto di perfezione? Esso è per alcuni un’esistenza ascetica sulla cima di qualche monte, per altri la difesa della natura, per altri ancora il frequentare musei d’arte, e per altri ancora scialacquare le proprie risorse in bettole d’infimo ordine.

 

     “Per la nostra cara Sophia la perfezione, qualunque essa fosse, era comunque un concetto da ricercarsi lontano dalle comodità della vita regale, dal lusso, dai vincoli della nobiltà. Esserino bizzarro ella era in verità; sta di fatto che vi era in lei come un’aspirazione alla luce, che la faceva anelare al ricongiungimento della propria piccola fiammella con l’origine stessa del calore, per sperdersi in essa, qualunque essa fosse;  poichè ancora non lo sapeva. 

 

     “La ritroviamo dunque, qualche mese più tardi, in una università, non si sa bene come; ma lo spirito di iniziativa e le risorse interiori non le mancavano davvero, e dunque eccola là, qualsiasi siano le circostanze che ve l’hanno portata. Ella studia con profitto, e discute spesso con i docenti, lasciandoli stupefatti da tanta scienza, tanto acume, tanto mirata penetrazione delle cose.

 

     “Si insinua in lei, col tempo, la convinzione di una chiamata, che si faceva più definita man mano che si avvicinava alla fine del suo corso di studi; e decide di farne il soggetto della discussione della sua tesi di laurea.

 

     “Arriva il fatidico giorno e lei si presenta, così dolcemente azzurra, nell’aula magna dell’università. A passo deciso e spedito si avvicina alla cattedra dei grandi luminari: un sorriso campeggia larghissimo e soave sul suo viso.

 

     “Dunque , signorina Sophia; abbiamo dato un’occhiata ai prolegomenoi che ci ha presentato in via propedeutica alla sua discussione vera e propria. Interessante introduzione, devo dire… anzi, “dobbiamo” dire, vero cari colleghi?” Esordì il presidente della commissione esaminatrice.

 

     Essi assentirono, il grigiore del loro capo appena scosso da un  debole raggio di attenzione permeata di sufficienza e di superiorità.

 

     “Però non le nascondo che nutriamo qualche perplessità a proposito delle sue congetture, peraltro supportate da una qualche evidenza. Perplessità che, spero, lei dissiperà in questa sede. Ma mi consenta prima una domanda: che intende dire con, e ripeto testualmente: “dinamiche di collegamento tra campi di realtà diversificati nella loro composizione intrinseca, a dimostrazione che una trasformazione psico-energetica portata sufficientemente in profondità nella struttura dell’essere in questione preso come struttura di campo “A” (con questo intendendo che esso dà il via all’azione) dissolve le apparenti differenze?”

 

     “Oso affermare con questo, esimio professore, e lo dirò con parole succinte, che si può creare un ponte che unisce non solo elementi profondamente diversi nella loro struttura (fino a farli coincidere) di uno stesso cosmo, ma di più universi, senza per questo sottoporli ad un’azione meccanica evidente, come il processo di applicazione termica, per esempio ”

 

     Un brusìo irritato e scandalizzato percorse come un’onda urticante la linea dei professori.

 

     “Inaudito!” Sbottò il presidente.

 

     “Certo, inaudito. Ma non per questo meno possibile” Rispose Sophia, calma e serena.

 

     “Fatti, signorina; ci servono i fatti, non le parole.”

 

     “Ve ne darò una dimostrazione pratica: Ma sarà possibile farlo solo all’aperto… per esempio sulla terrazza a cui si ha accesso tramite quella grande porta-finestra.”

 

     E senza dare loro nemmeno il tempo di replicare, Sophia si diresse rapidamente verso la terrazza e spalancò la porta-finestra: il cielo d’estate, azzurrissimo, non era minimamente scalfito dall’ombra di una nuvola. La veranda, posta sul retro dell’edificio, dava sul vasto prato del campus universitario, che si stendeva come un verde baluardo sotto il celeste dominatore del mondo.

 

     I professori, come comandati da un’imperiosa sollecitudine che li spingeva a spegnere una parte del loro presuntuoso cervello, si diressero in fila indiana, come in trance, verso la terrazza. Nemmeno loro sapevano perchè acconsentissero così docilmente a un’azione del tutto contraria ad ogni  procedura. Una volta fuori , si schierarono davanti alla porta, mentre Sophia si era messa in piedi sulla balaustra, spalancando le braccia. Nessuno dei professori se ne dette pensiero, come se fosse la cosa più normale del mondo.

 

     Lei, ad occhi chiusi, si era inoltrata in un lungo viaggio all’interno di sè e pulsava di fervido amore, mentre il suo blu si stemperava e assumeva la tinta del cielo. I professori assistettero impassibili alla trasformazione di un essere preso come struttura di campo “A” e videro Sophia disgregarsi lentamente e poi scomparire, inghiottita dall’azzurro circostante. Rimaneva una sorta di apertura, una finestrella di cielo da cui lei, ormai lontana  anni-luce, guardava divertita una parte di cosmo abitata da esseri primitivi; e l’ombra del suo sorriso aleggiava irradiando la sua dolcezza da quell’occhio di azzurro.

 

     A capo chino ed in silenzio i professori tornarono al lungo tavolo degli esaminatori, vidimarono ognuno il documento di tesi di Sophia, e arrotolarono il papiro della laurea, legandolo con un vezzoso nastrino blu, lasciandolo poi sul tavolo.

 

     “E ora tutti sanno, caro signore, che si può diventare quello che si vuole, poichè si è già tutto”

 

     Rufus si era addormentato, e non si avvide che il vagabondo, dopo avergli dolcemente passato una mano sulla testa, si era rivestito di colori sgargianti e con un passo era entrato nell’arazzo appeso al muro, scomparendo ben presto dietro una curva della strada che si inoltrava nel folto di un bosco.

 

     Il giorno dopo Rufus guardò il cielo e comprese che Alice, dopo tutto, non era scomparsa. E sorrise. 

 

Simone Sutra – itdavol@tin.it

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