Vegetarismo: “Dal genoma del fruttariano alla devianza del carnivoro e di come l’uomo perde la propria natura…”
Molte sono le cause che possono scatenare un’azione violenta e perfino una guerra: disperazione, ingiustizia, fame, privazione di un diritto, sottrazione di qualcosa che ci appartiene, messa in pericolo della nostra incolumità ecc., mentre il tipo di reazione alla violenza subita, verbale o fisica, dipende sempre dal grado di tolleranza e di mitezza della vittima. Purtroppo vi sono anche esseri umani in grado di causare violenza gratuita, cioè senza alcuna causa razionale scatenante se non quella del danno fine a se stesso. La violenza quindi si identifica con tutto ciò che causa danno lieve o grave di natura fisica, psichica o morale.
In natura la violenza è il mezzo attraverso il quale ogni essere vivente si procaccia il cibo di cui ha bisogno, quasi sempre a danno di altri esseri viventi dei quali si nutre, al punto che se gli animali cessassero di aggredirsi a vicenda si spezzerebbe l’ordine naturale delle cose e nulla potrebbe esistere. La crudele legge della natura sembra incombere inesorabilmente nella vita del macro come del microcosmo.
Le piante traggono il loro nutrimento direttamente dalla terra, gli animali erbivori dalle piante, mentre gli animali carnivori si nutrono di altri animali, in genere erbivori. Solo gli animali fruttariani (alla cui categoria appartiene anche l’essere umano) possono vivere senza attuare violenza e senza arrecare danno ad altri esseri viventi, forse per questo risultano, nella sfera emotiva, tra gli animali più evoluti.
Dal momento che l’essere umano non ha gli attributi anatomico-fisiologici tipici degli animali predatori (corna, zanne, artigli e insensibilità alla vista del sangue), dovrebbe essere un animale pacifico e mite, come i primati al cui ordine appartiene, invece risulta essere la creatura più agguerrita e crudele, capace di macchiarsi di crimini orrendi, di stragi, di genocidi anche verso i componenti della sua stessa razza.
Anche se la violenza umana dipende da fattori genetici, neurologici, la causa primigenia che inclinò l’essere umano all’aggressione (e che ai primordi poteva essere giustificata) fu sicuramente di origine ambientale scatenata dalla fame e dalla spinta alla sopravvivenza, che mise in atto con spirito di emulazione (mors tua vita mea) ma che ha inciso ed incide in modo determinate sull’indole umana. Ma oggi, mentre gli altri esseri viventi sono costretti, pena la fame e la morte, a ricorrere alla violenza per procacciarsi il cibo di cui hanno bisogno, l’essere umano può assicurarsi il sostentamento senza dover uccidere, senza causare violenza e spargimento di sangue: l’uomo può spezzare questo meccanismo di violenza e di morte ascoltando la legge morale della sua coscienza.
L’insensibilità verso la morte della vittima è componente necessaria nella natura di un animale predatore. Infatti se gli animali carnivori avessero una sfera emotiva molto più sviluppata col tempo svilupperebbero comportamenti naturali diversi da quelli per cui sono strutturati (il cane o il gatto ormai animali domestici hanno perso quasi del tutto la capacità di predatori). Così è per gli esseri umani. Il criminale che uccide un uomo per la prima volta risente di un forte impatto emotivo, ma se la sua azione criminosa si ripete egli svilupperà una progressiva indifferenza verso la morte, il dolore della vittima e verso la vista del sangue e l’uccisione di un suo simile diviene un fatto “normale”.
Per compiere un qualsiasi delitto (dal più piccolo furto alla strage) è necessario che l’individuo sia insensibile all’altrui sofferenza, che sia incapace di condividere l’altrui condizione. Mentre una persona d’indole buona, con una coscienza giusta e sensibile, sarà incapace di nuocere agli altri e non si abbandona ad atti di violenza neanche davanti alla provocazione.
Allo stesso modo avviene per l’uccisione di un animale da parte di un uomo. La prima volta la coscienza dell’individuo si ribella ed egli resta turbato alla vista della sofferenza dell’animale e del sangue che scorre mentre la vita lascia il corpo della vittima. Ma nelle uccisioni successive egli proverà sempre meno rimorso e cercherà di giustificare se stesso pensando: gli animali sono fatti per l’uomo; così è sempre stato; questo è il mio lavoro; uccido perché qualcuno aspetta questa carne ecc. In realtà egli ripete l’azione dei suoi antenati che dopo 3 milioni di anni di regime vegetariano ed usciti dalla foresta ridotta ormai a savana a causa dei mutamenti climatici, furono costretti, per sopravvivere, ad inserire nella loro dieta anche la carne vivendo di sciacallaggio.
Ma quando i nostri progenitori (animali fruttariani, sprovvisti della spinta naturale ad uccidere e mangiare il corpo sanguinolento e palpitante di un animale appena ucciso, dotati invece di un istintivo senso di inibizione e di ripulsa verso la vista del sangue e della morte) furono costretti dalla fame ad uccidere un altro animale, la sfera “emotiva,” che con l’evoluzione si stava sviluppando nella coscienza della specie, andò scemando fino a restare circoscritta solo a quelli della sua stessa razza e rallentò, se non precluse il suo stesso sviluppo. L’ominide aveva imparato ad uccidere, aveva capito che questo gli consentiva un ottimo bottino e l’azione inizialmente sporadica si ripeté ogni qualvolta vi fu la necessità di difendere il proprio pasto, la propria pozza di acqua, il proprio giaciglio, la propria compagna. Il danno nella sua coscienza era stato irrimediabilmente compiuto. Con l’uso della violenza l’ominide si sentiva più forte e sicuro ma a pagarne le conseguenze furono non solo gli altri animali ma anche quelli della sua stessa razza nei confronti dei quali era ormai capace di mettere in atto le stesse azioni distruttrici.
Quando l’essere umano in maturità e coscienza rifiuterà la violenza, l’aggressione e il predominio come espressione vitale, quando avrà la consapevolezza che ciò che determinò le sue azioni violente non è più giustificabile dalla spinta alla sopravvivenza (dal momento che oggi l’uomo può benissimo assicurare il suo sostentamento attraverso alimenti che non richiedono l’uccisione e lo spargimento di sangue) allora tornerà alla sua antica natura di animale mite e pacifico. Anche perché la carne, non essendo un alimento adatto agli esseri umani ma agli animali predatori, inclina l’uomo all’aggressività e alla violenza verso il suo stesso simile.
Quando gli esseri umani considereranno l’uccisione di un animale alla stessa stregua dell’uccisione di un uomo (come diceva Leonardo da Vinci) avranno raggiunto quel grado di giustizia, di civiltà, di sensibilità d’animo e di condivisione che gli consentirà di realizzare un mondo migliore. Ma “finché gli uomini si ciberanno come le tigri (diceva A. Kinsford) “essi manterranno la natura della tigre”. L’uccisone degli animali ha determinato l’uccisione della sensibilità dell’animo umano. Per questo, come asseriva un altro filosofo, George Herrman, “Finché vi saranno i mattatoi vi saranno i campi di battaglia.” L’uomo diventa ciò che mangia e di ciò che mangia si nutre anche la sua anima.
La coscienza umana, come punto di percezione più ampia e come capacità di condivisione, è il risultato dell’evoluzione genetica che emerge come freno inibitore di fronte ad ogni azione delittuosa, ed è ciò che caratterizza la grandi innovazioni civili e spirituali dei grandi iniziati di ogni tempo e paese che vedono nella mancanza di compassione la causa principale di ogni violenza, ogni ingiustizia ed ogni sventura umana.
Ma come attuare questo processo di sensibilizzazione della coscienza umana al fine di porre le basi per un mondo di pace e di giustizia tra gli esseri umani e tra questi ed il resto della creazione? Semplicemente attraverso la valorizzazione ed il rispetto di tutto ciò che è diverso dall’uomo.
Se le nuove generazioni saranno educate ad apprezzare la bellezza del “piccolo,”ad amare, a rispettare la sacralità della vita in tutte le sue espressioni, se saranno in grado di meravigliarsi della bellezza di un fiore, di un semplice filo d’erba, se saranno educate a sviluppare la capacità di condividere le necessità vitali degli altri esseri viventi, le difficoltà esistenziali di ogni creatura, di capire che tutto ciò che esiste ama la vita e non vuole, come noi stessi e che la nostra stessa esistenza dipende dalla simbiosi armonica tra tutte le cose; se le nuove generazioni sapranno amare il piccolo, le cose minute, il particolare valorizzandolo per il suo intrinseco valore, inevitabilmente sapranno rispettare ed amare anche il grande, cioè gli esseri umani e finalmente saremo in grado di superare questo millenario ed infausto periodo storico di violenze e di lutti. Diversamente il processo inverso non solo non è in grado di produrre i risultati sperati ma diventa la causa principale della disumanizzazione della coscienza umana, come la storia conferma.
Franco Libero Manco – www.universalismo.it