Giorgio Nebbia: “Il potere finanziario è il vero nemico della Terra” – Analisi sui 40 anni trascorsi dal primo “The Earth Day”

Il 1970 arrivava dopo una lunga serie di contestazioni contro le esplosioni di bombe nucleari che facevano cadere su tutto il pianeta le loro scorie radioattive, contro la diffusione planetaria dei pesticidi clorurati persistenti, come il DDT, i cui effetti nocivi erano stati rivelati pochi anni prima dalla biologa americana Rachel Carson; arrivava in un periodo in cui la popolazione mondiale, allora di 3700 milioni di persone, stava aumentando in ragione di cento milioni di persone all’anno e in cui, dopo la fine dell’occupazione coloniale, centinaia di milioni di famiglie, in Asia, in Africa, in America latina, rivendicavano il diritto a migliori condizioni di vita.

Il 1970 era arrivato nel pieno della disastrosa guerra del Vietnam nella quale l’esercito americano aveva impiegato diserbanti tossici per distruggere le foreste e la giungla in cui potevano rifugiarsi i partigiani Vietcong; le città industriali erano afflitte da un traffico congestionato e la loro aria era oscurata dai fumi industriali; il petrolio copriva vaste superfici del mare e gli incidenti industriali provocavano stragi di vite umane.

In quei giorni fu come se si aprissero gli occhi a un gran numero di persone: in un’epoca di grande sviluppo economico gli abitanti dei paesi industrializzati si accorsero improvvisamente che le fumose ciminiere delle fabbriche non segnavano l’avanzata del progresso, ma buttavano nell’atmosfera polveri e sostanze cancerogene e acidi che andavano a finire nei polmoni dei cittadini, nei fiumi, sui boschi. L’automobile, massimo segno del successo tecnologico, appariva improvvisamente un aggeggio che, invece di liberare dai vincoli dello spazio, costringeva a muoversi a pochi chilometri all’ora, tutti in fila, in mezzo a un’atmosfera inquinata da fumi, metalli, veleni. La plastica, trionfo dell’industria chimica sintetica, era un bellissimo materiale che, dopo l’uso, restava indistruttibile e copriva i mari, si fermava sugli argini dei fiumi, svolazzava per i campi coltivati. Il turismo assicurava riposo e divertimento a folle sempre maggiori, a spese della distruzione degli alberi e delle spiagge, riproducendo in riva al mare o nelle valli i rumorosi e inquinati modelli della vita urbana.

Il lavoro nelle fabbriche liberava grandi masse di persone dalla miseria secolare a prezzo di incidenti, avvelenamenti, morti, tanto che alcuni scrissero che “lavorare fa male alla salute”. Il petrolio, i minerali, i prodotti forestali, i raccolti agricoli potevano trasformarsi in merci, in carta, in macchine ed energia, in cibo — beni abbondanti e a basso prezzo — soltanto perché i paesi industriali costringevano i paesi poveri a vendere quasi per niente le loro risorse naturali, lasciandoli con terre desolate, con i fiumi inquinati, con nuovi deserti.

Nella primavera di quarant’anni fa una nuova generazione di giovani, gli stessi delle lotte studentesche e operaie in California, a Parigi, a Berlino, a Milano, misero in luce i lati oscuri del progresso, si accorsero che le Università, i grandi scienziati, il potere economico e politico, avevano tenuto nascosti gli aspetti negativi del “progresso” merceologico; furono scoperte parole magiche e sconosciute come “ecologia”.

Qualcuno ricordò che il nome era stato inventato da un seguace di Darwin, un certo Ernst Haeckel, nel 1866, più di un secolo prima, ma la parola era rimasta sepolta nei laboratori e nelle cattedre universitarie i cui scienziati neanche potevano immaginare che la loro tranquilla e distinta disciplina potesse trasformarsi nella bandiera di una nuova contestazione.

La parola “ecologia” divenne allora domanda di un cambiamento verso un mondo meno violento e più ospitale per gli esseri umani; i sit-in, quelle forme di lezioni all’aperto dei campus delle università americane, riunivano migliaia di studenti e docenti di prestigio, autori di libri che chiedevano una nuova etica di vita nell’ambiente.

Il 22 aprile 1970 fu un evento importante anche in Italia; i movimenti ambientalisti in Italia erano appena nati — Italia Nostra esisteva dal 1955, il WWF era stato fondato pochi anni prima, la Legambiente sarebbe nata dieci anni dopo. La Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche FAST di Milano organizzò alla Fiera di Milano una grande conferenza internazionale i cui atti (”L’uomo e l’ambiente: una inchiesta internazionale”, Milano, Tamburini, 1971), purtroppo ormai una rarità bibliografica, conteneva un inventario delle forme di violenza contro l’ambiente. Amintore Fanfani, che allora era presidente del Senato, creò una commissione “speciale” invitando alcuni studiosi ad informare i senatori sui “problemi dell’ecologia”.

La prima “Giornata della Terra” di quel 22 aprile 1970 rappresentò uno stimolo culturale formidabile: un gran numero di persone — giornalisti e studenti, professori e comuni cittadini — si misero a pensare, a leggere, a scrivere, a parlare di ecologia. I cristiani si ricordarono che San Francesco aveva spiegato che gli esseri umani e gli animali e le parti inanimate della natura, come l’acqua e il fuoco, erano tutti “prossimo”, fratelli da trattare con rispetto e amore. Molti scoprirono che perfino gli austeri padri del comunismo, Marx ed Engels, contemporanei di Liebig, di Darwin, di Haeckel, avevano riconosciuto i legami fra gli esseri umani e la terra e la natura, e avevano avvertito che tali legami venivano rotti dal modo capitalistico di produrre. Alcuni si permisero addirittura di spiegare la fallacia del “Prodotto interno lordo” come indicatore bel benessere e dello sviluppo umano.

In quella lontana “Giornata della Terra” di quarant’anni fa sui muri delle città americane apparve un manifesto in cui era riprodotta la vignetta di un fumetto, allora celebre, Pogo, un opossum umanizzato che, come molti personaggi dei fumetti, ironizzava sul comportamento, nel bene e nel male, degli umani. Pogo guardava un diligente ecologista che gettava per terra un foglio di carta straccia, e Pogo si chinava a raccoglierlo mormorando sconsolato: “Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi”. Anche oggi quante volte si vedono delle degnissime persone, eminenti nella loro professione, che si dichiarano fedeli amici dell’ecologia, ma poi fanno a gara per sfrecciare su ingombranti SUV e per costruire suntuose ville (meglio se abusive) nei boschi e sulla riva del mare.

Che cosa è rimasto di quella voglia di cambiamento, di quell’ondata di speranza?. Nel 1973 la prima crisi petrolifera offrì l’occasione al potere economico e finanziario per spiegare che quelle dell’ecologia era tutte favole, che occorreva energia a basso prezzo, che, in Italia, diecine di centrali nucleari avrebbero permesso di superare la crisi, che occorreva produrre e consumare più automobili, più merci, più plastica, diffusero l’illusione che la tecnica avrebbe risolto tutto. La breve stagione dell’austerità, promossa dalla sinistra nella seconda metà degli anni settanta del Novecento, proponeva di sostituire il consumo della massa delle merci con spese per i servizi, dalla difesa del suolo, all’approvvigionamento idrico e alla depurazione delle fogne, alla ristrutturazione delle città, ma fu ben presto spazzata via.

Quarant’anni di conferenze, di chiacchiere, da Rio de Janeiro a Johannesburg, di promesse di sviluppo sostenibile, e oggi ? La popolazione mondiale è aumentata a quasi 7000 milioni di persone, due miliardi di nuovi consumatori in Asia si affiancano ai due miliardi di abitanti dei paesi già industrializzati affannandosi a bruciare carbone e petrolio, a produrre macchine e merci, a immettere nell’atmosfera gas nocivi e che alterano il clima, a gettare nelle discariche e negli inceneritori, miliardi di tonnellate all’anno di rifiuti, oltre centoventi milioni di tonnellate ogni anno solo in Italia; residui di plastica galleggiano addirittura sugli oceani. Grandi città costiere anche in Italia, spacciata come quarta o quinta o sesta potenza economica mondiale, gettano tranquillamente le acque di fogna non trattate nel mare e nei fiumi.

Molti paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia sono devastati da guerre per lo sfruttamento delle riserve di minerali, di petrolio, per la distruzione delle foreste. Si intensifica la rivoluzione merceologica per cui terre agricole sono impiegate per produrre biocarburanti, la fame di spazio per edifici, centrali, fabbriche, quartieri urbani, svettanti grattacieli simboli del lusso, rendono più fragili le colline e le coste, fanno aumentare frane e alluvioni; l’illusione della felicità implicita nel possesso di cose materiali rende miliardi di persone schiave del potere finanziario che si arricchisce vendendo pezzi di natura, addirittura speculando sul commercio dei gas serra.

Forse bisognerebbe fermarsi e guardarsi intorno, forse bisognerebbe riscoprire l’ecologia e le sue lezioni, forse occorrerebbe trasformare la rituale stanca e svogliata celebrazione annuale della ricorrenza del 22 aprile in una voglia di rilanciare un nuovo rapporto fra gli esseri umani con le risorse naturali, una nuova richiesta di giustizia nella distribuzione dei beni della Terra. Davvero, come diceva Pogo, occorre scoprire che il nemico siamo noi.

Giorgio Nebbia

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