“Cicladi, Siria, Africa…. e Polimnia, la musa degli inni sublimi” – Racconto mitologico esoterico di Simome Sutra
Polimnia guardava lontano, nel vuoto di una notte senza luna e senza stelle. Gli occhi vuoti erano pieni di buio, che era tutto ciò che c’era, dentro lei e intorno a lei. Inutilmente aguzzava lo sguardo: lo sapeva anche lei che non c’era niente da vedere.
Si staccò, riluttante, dal parapetto a cui era rimasta appoggiata per un’ora buona o forse più. Sotto di esso, il caldo sentore del Mediterraneo esalava salmastro. Un modo per sentirsi vivi, si disse lei. Amava il mare, quel mare, perchè sentiva che in esso si rimescolavano tutte le voci e le presenze di mondi lontani e vicini, solo immaginati: le spiagge bianche delle Cicladi, le sponde frastagliate della Turchia, la piatta linea costiera della Siria….e poi ancora l’Africa, la Spagna…in qualche modo tutto ciò le apparteneva un po’ quando lei aspirava la fragranza di quel mare. Le bastava socchiudere gli occhi e aprire le narici per sentirsi là, perlomeno con una parte di se stessa.
Giovane, era, Polimnia, giovane e bella, le dicevano. Ma a lei non importava: non voleva sentirsi bella, voleva solo sentirsi se stessa. Il guaio era che nemmeno lei sapeva chi era.
Attraversando le straduzze del porto, illuminate dalle vetrate dei bar affollati di perdigiorno sentiva su di sè gli sguardi degli uomini, sguardi aguzzi e affilati, che avrebbero voluto spogliarla; poteva quasi percepire il sottile ansare di quei fiati inondati di alcool. Ma lei non si lasciava sporcare; era una ragazza forte, Polimnia. Sola e forte.
Rientrò nel piccolo appartamento, che condivideva con lui. Sapeva che quella notte lui l’avrebbe voluta prendere, come sempre nelle notti d’estate. Ma quella notte, no: quella notte lei era solo per se stessa. L’avrebbe rifiutato: lui si sarebbe prima arrabbiato, poi avrebbe fatto l’offeso, poi sbattendo la porta se ne sarebbe andato a bere in qualche bettola, e forse sarebbe finito a letto con una puttana, per smorzare l’ardore. Tanto meglio: la notte sarebbe stata di lei, solo per lei. Avrebbe fantasticato, a lungo, sui suoi progetti di fanciulla, quelli che non aveva mai realizzato: studiare all’Istituto nautico, e poi diplomarsi per navigare, navigare….
Che le restava di quei sogni? Giovane era, Polimnia, giovane e vecchia: perchè così si sentiva a volte. Una vita da non molto iniziata che sembrava già sulla china discendente. Non sapeva donarsi a se stessa, Polimnia. Il suo corpo, non ci voleva molto a donarlo ad altri, e le era sempre sembrato un gioco farlo, nella sua spontaneità; ma il suo animo era tutto rinchiuso dentro, come un mantello che l’avviluppasse strettamente. Proprio così il suo volto risaltava di quella bellezza straordinaria che sgorgava dalla sua natura profonda: ma chi comprendeva quella bellezza? Nessuno e nemmeno lei, perchè era troppo distante, troppo rarefatta, troppo enigmatica e anche troppo perfetta, irreale quasi. A volte le sembrava di non appartenere nemmeno a se stessa, ma a qualche mondo lontano, qualche distante costellazione dove, magari, tutto era davvero perfetto, per compensare tutta quell’imperfezione della vita, della sua vita.
“Polimnia era la musa degli inni sublimi” le aveva detto con un sorriso benevolo quel vecchio professore, l’amico di suo nonno, quando lei era ancora una giovinetta e non poteva ben capire che significassero quelle parole. Però le erano rimaste impresse nella mente: c’era un’altra Polimnia, ed era una persona importante! “sublimi…sublime” com’era bello quell’aggettivo, com’era pieno, com’era…elevato! Forse il suo stesso nome aveva disposto del suo destino, chissà…. però poi pensava che lei certo non si sentiva sublime, tutt’altro. E allora l’assalivano i dubbi: e se il destino si fosse sbagliato, suggerendo ai suoi genitori di darle quel nome? Era tutto un equivoco, tutto una squallida messinscena? E allora iniziava il suo percorso tortuoso e apparentemente incessante nei suoi meandri interiori: l’unico sollievo era dare quelle pennellate, rapide e decise, nervose, istintive e frementi, sulla tela. Poi riguardava il tutto, ben sapendo che a nessuno quel dipinto avrebbe detto qualcosa, tranne che a lei. E con ciò? L’occhio dell’universo aveva riguardo anche per una piccola lei, e questo le bastava. A volte invece si coricava sazia di lacrime, senza nemmeno riuscire a dipingere, e il suo tormento la lasciava esausta, abbandonata sul cuscino. Era allora che un’altra lei si calava in quel piccolo, fragile corpo e la guidava verso terre luminose, accompagnata da musiche gioiose e gente felice. Al risveglio anche lei si sentiva un’altra: cantava, si concedeva con tutta se stessa al suo uomo e poi usciva, camminando quasi a passo di danza, diffondendo allegria in tutti quelli che la incontravano. Al supermercato dove lavorava aveva sempre un sorriso per tutti, clienti, colleghi e superiori. Loro capivano bene che lei era speciale, era diversa, forse neanche di questo mondo, ed erano contenti di lei, ma la temevano anche un po’, perchè non la capivano.
Così scorreva la sua vita, come quei fiumi di pioggia che gonfiavano i vicoli in discesa verso il porto come canaloni stretti fra le pareti a picco delle case che le fiancheggiavano.
Un giorno, era primavera, l’aria tiepida portava con sè il profumo del basilico, la fragranza dell’origano, l’inebriante odore dell’erba tagliata di fresco, e le capitò di guardare in alto, e vide una fetta di azzurro stretta fra le cime delle case: era un presagio che sembrava indicare una via, o un nastro da usarsi per adornare un regalo? Tutt’è due le cose, perchè no? Pensò lei. E il pensiero, sciocco e forse un po’ infantile, le diede una strana e tranquilla gioia, come non sentiva ormai da tempo. Stette lì ferma, immobile, a guardare quell’angusta striscia di cielo chissà per quanto, a riempirsi gli occhi di una pace leggera, inconfessabile. Spuntò la luna: lei la contemplò, l’amò e le chiese il suo amore, che le fu concesso con delicate argentee carezze. Le sembrava di aleggiare sulla dorata polvere, lascito generoso di un sole ormai spento, mentre camminava come in sogno verso gli scogli.
Si sedette in un angolo quieto e si tolse tutti i vestiti, e poi si sdraiò su uno scoglio. Il sonno la colse mentre accoglieva grata l’amplesso protettivo della signora del cielo: non si accorse perciò della marea che salendo l’avvolse gentile e rispettosa e lambì amorosa tutto il suo corpo.
Polimnia così se la portò via il mare, quel mare che lei amava tanto, per condurla in una terra luminosa, dove, circondata dagli alti steli dell’erba matura, poteva correre a perdifiato per rincorrere i suoi sogni, e conoscere appieno quella sublime creatura che era davvero. E non si sarebbe più stancata di intonare i suoi dolci inni al cielo stellato.
Pierre, il suo uomo, trafitto dalla disperazione, dopo aver inghiottito lacrime amare a sazietà, si volle disfare delle sue tele che rinverdivano il suo dolore : le vendette a un rigattiere per quattro soldi, perchè non erano un granchè, secondo lui – e neanche secondo il rigattiere, che però per esperienza sapeva che c’era sempre qualche pazzoide che riusciva a far valutare come opere d’arte anche gli scarabocchi di un bambino.
Una gran signora che girava tutti gli antiquari e i robivecchi della città, sempre alla ricerca di oggetti “particolari” , le vide e se ne innamorò. Il rigattiere non ci capiva niente: ma come, quei brutti pasticci, quegli assurdi ghirigori, quei caotici incroci di insensate forme, quegli informi ammassi di colore…? Tutta quella robaccia le piaceva veramente? Bè, tanto meglio per lui, ci avrebbe guadagnato su un bel po’.
Ma la signora….oh, lei sì ci vedeva un senso in quelle pennellate scomposte e ineguali, da cui sprizzava l’angustia di una giovane anima: ma quale amorosa coniugazione della luce, quanta albeggiante luminosità, che inesausta, febbricitante generazione del colore, quante sorprendenti svolte su angoli di pura bellezza…. l’angoscia che aveva spremuto i tubetti delle pitture aveva fatto esplodere, liberandole, le forme sublimi contenute nell’anima, che disegnavano, agli occhi della donna, leggiadri intrecci di danze amorose, volti radiosi di antichi esseri saggi, panorami in cui si stendeva la quiete agreste inumidita dal velo lacrimante della rugiada. E poi ancora, fanciulle gioiose della loro perfetta nudità, spiritate e festanti, accese a risvegliare le cascate d’oro dell’anima con sinfonie di risate, bimbi assorti nel loro sapiente gioco senza tempo con lo sguardo perso verso distanti continenti ancora inesplorati….
Oh sì, lei vedeva bellezza dappertutto in quelle “ignobili croste” come le definiva il vecchio rigattiere (ovviamente fra sè e sè) nella sua oscura tenebra di polverosa bottega, cieco vicolo di vita. Ma lei sapeva ormai cosa doveva fare, perchè aveva capito. Le acquistò tutte: poi affittò una grande galleria dove le espose, e tutti quelli che volevano ammirarle potevano entrare liberamente.
Non a tutti piacevano quelle tele, e molti si allontanavano con sguardi biechi, rivoltandosi in su il colletto; e il buio che li accompagnava s’infittiva ancor più attorno a loro.
C’era però chi si aggirava come in trance fra i diversi ambienti e ne usciva stremato di felicità, conscio di aver fatto un passo dietro le cortine segrete di un’altra vita e di esserne uscito trasformato, con lo sguardo che vagava sull’infinito racchiuso in un paracarro, un accendino, un sasso, una finestra, una lampadina. E tutto era permeato della stessa sovrana bellezza che stregava i quadri di Polimnia.
E ogni sera la signora, prima di chiudere la galleria, si recava nell’angolo più appartato, dove viveva per sempre, nella sua cornice, una giovane donna che guardava lontano, avvolta fino al collo da un mantello stretto attorno alla sua delicata figura. E allora la fanciulla, le sembrava, girava lo sguardo verso di lei, e sorrideva.
Simone Sutra – itdavol@tin.it