Stefano Andreoli: “Vuoto, solitudine, silenzio…” – Cosa vi dicono queste parole? Nella spiritualità laica descrivono la pienezza del Sé e la sua pace, nel contesto umano evocano inquietudine, timore, assenza…
La voce del silenzio – Prefazione
Che cos’è il silenzio? E’ una domanda che ci si pone oramai quando, nella disperata confusione del mondo affollato di stonature e distrazioni, per sbaglio ci si ritrova soli in mezzo ad un apparente stato di vuoto, con la sensazione di essere lontani da tutto. Magari ci capita mentre stiamo aspettando qualcuno, alla fermata dell’autobus, poco prima di addormentarsi sotto le coperte, o semplicemente quando arriviamo a casa e, chiusa la porta alle spalle, finiamo nella nostra cameretta accogliente.
Ed è proprio in quei momenti di “vuoto e solitudine” che una strana e amara sensazione improvvisamente ci piomba addosso, quasi come volesse sorprenderci in un momento di debolezza e vulnerabilità. Dopo solo qualche minuto in compagnia del silenzio, esso ci diventa talmente fastidioso da spingerci ad allontanarlo con una delle tante distrazioni che la casa ha da offrici. Ma quale errore si commette fuggendolo: in verità nulla stilla più significato che imparare a guardare in faccia questo nuovo ospite inatteso e molesto, capace di possedere una voce talmente sonora e violenta da far terribilmente paura. Inizia subito come un mormorio seccante e subito trascurabile, ma alla lunga finisce per irrompere in un monito incessante puntato ad impegnare tutta l’attenzione di cui siamo capaci. E allora ci carpisce, ci rende totalmente assorti in qualcosa, ci sveglia; d’un tratto iniziamo a sentire, sentire cose che non avevamo mai percepito prima: il pensiero che in tutta la sua vitalità appare cristallino e vivo, il respiro profondo e solenne che diventa la nuova clessidra dell’anima, quei suoni attorno a noi talmente flebili da esser sempre risultati impercettibili.
Ci obbliga a ripiegarci in noi stessi e a gettare gli occhi in fondo a quell’immenso abisso che ci abita ed è in grado di spalancare quelle porte tenute accuratamente chiuse, guardiane di chissà quali segreti. E in quel baratro buio come la notte e vasto quanto il deserto, lentamente scorgiamo un’immagine informe, qualcosa di cui ne percepiamo nettamente la presenza ma a cui non riusciamo a darei un nome e un senso. Come se avessimo stabilito per la prima un contatto diretto e intimo con una nuova dimensione del nostro essere, l’anfratto più autentico e profondo di noi stessi, depositario di una verità ora totalmente nuda, esposta, viva.
Diventa allora possibile prendere consapevolezza della propria esistenza e del pesante bagaglio di domande e aneliti di cui è fatta la vita, percepire le sfumature più sottili di tutta la totalità del nostro complesso essere, costruire i pensieri più sublimi e veritieri, ma soprattutto avere l’illusione di scorgere nel chiarore di una tiepida preghiera, quello che sembra essere il riflesso di Dio. Un dialogo muto che diventa l’unico mezzo col quale poter afferrare anche solo per un istante Lui, la Sua presenza.
“Dov’è l’amico che il mio cuore ansioso
ricerca ovunque senza avere mai riposo…
Finito il dì ancor non l’ho trovato
e resto sconsolato…
La Sua presenza è indubbia ed io la sento
in ogni fiore e in ogni spiga al vento…
L’aria che io respiro e dà vigore
del Suo Amore è piena.
Nel vento dell’estate
la Sua voce intendo”
(Ingmar Bergman, Il posto delle fragole, 1957)
E in una lunga e intensa contemplazione, quasi come per un istante si fosse riusciti ad abbracciare l’Assoluto, allora forse l’animo diviene partecipe di quella pienezza tanto bramata e misteriosa. Una volta destati da quell’atmosfera nuova di silenzio onirico, è facile durante la giornata accorgersi che qualcosa di quella discesa dentro di noi stessi è rimasto, come un’esperienza nuova appena conclusa di cui se ne conservano le emozioni e le riflessioni. Quest’orma che inconsapevolmente diventa traccia dentro di noi è una nuova consapevolezza del significato delle cose, l’attenzione sottile e sensibile con cui il nostro sguardo si poserà sul mondo. E solo con questa contemplazione attenta il nostro animo potrà ritrovare le proprie risposte di quel grande misterioso interrogativo che è l’uomo e il mondo.
“Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia ch’io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l’Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. (…)
Tardi ti amai, bellezza cosí antica e cosí nuova, tardi ti amai. Sí, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lí ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai’ e ho fame e sete’; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace.“
Dalle Confessioni di Sant’Agostino d’Ippona.
Medley sul silenzio – (Residui di Natale)
Mai come da quando sono qua, se penso al tempo di Natale mi viene in mente il silenzio: niente musichette stonate e metalliche che escono dai bigliettini d’auguri, niente campane né campanellini tintinnanti, niente “Jingle Bells” in piazza o nei centri commerciali, niente canzoncina della pubblicità Coca-Cola che fa gli auguri per tv. Solo silenzio. Sarà per via del letargo in cui sprofondiamo tutte il 25 dicembre dopo i postumi delle quattro ore di sonno? Saranno state le nevicate abbondanti e i ritiri in tempo di avvento? Mah. Fatto sta che anche quest’anno, mentre sull’aria di “tutto passa, tutto finisce” smantellavo il presepe in anticoro (che mi sembrava di aver allestito il pomeriggio prima!), mi ritrovavo a chiedermi cosa è rimasto di un altro Natale andato, o meglio, se il Natale del 2009 avesse lasciato in me qualcosa in particolare, o se la fosse semplicemente svignata alla chetichella così com’era venuto.
In tutta risposta ho pensato di proporvi un medley sul silenzio. Gli appassionati di concerti rock -ma non solo- sanno che il medley (in italiano: miscuglio, dal verbo to melt, mescolare) indica un insieme di canzoni suonate una dopo l’altra, senza interruzioni, legate tra loro da una parte musicale comune, come se fossero un unico grande brano. Di solito i pezzi possono essere di un solo artista o accomunati dallo stesso genere, ma comunque sempre legati tra di loro con grande continuità: sta alla bravura di chi suona scivolare in modo “jazzato” da una canzone all’altra, quasi senza che l’ascoltatore se ne accorga. Per il mio “medley su carta” utilizzerò i contributi di vari autori, ma tutti, digressioni comprese, ruoteranno intorno al tema del silenzio come filo conduttore della riflessione.
Esistono in natura mattine e pomeriggi colmati in modo particolarmente accurato di una gran quantità di silenzio: allora gli uomini vengono colti di sorpresa, il più delle volte sprovvisti e del tutto incapaci di starsene in casa con gusto. Volentieri invece vanno a procacciarsi diversivi e “divertimenti” in grande quantità: la loro infelicità “deriva da una sola cosa, che è quella di non riuscire a starsene tranquilli in una stanza… Eppure, togliete loro la distrazione e li vedrete morire di noia; essi sentono allora il loro niente senza conoscerlo” (B. Pascal, Pensieri). “E’ il primo passo, per quanto doloroso, verso la salvezza. E’ la caduta degli idoli, il crepuscolo degli dei. A saperlo portare, guardare, conoscere, non più attaccati a se stessi, il vuoto che si sente non è altro che la vanità dell’io, la morte che si approssima, il nulla che ci attende” (G. L. Ferretti, Reduce).
A dispetto di quanti vi vedono soltanto derive nichiliste, “percepire il presente come vuoto è un grande atto spirituale: fermarsi, zittirsi, oscurare l’immaginazione che sempre lavora in noi, imparare a stare fermi, respirare profondamente” (ibidem) dischiude ad una sorta di rimpatrio dentro di sé, di ritorno, di risucchio verso l’interno e verso le proprie radici. Educarsi ad accogliere senza fughe né resistenze l’irrompere di un evento simile, “sentire il vuoto del presente e noi che sprofondiamo in esso liberandoci da noi stessi” (ibidem), conduce alla consapevolezza che “non dobbiamo più andare da nessuna parte, siamo arrivati, siamo a casa” (ibidem). E’ l’esperienza del precipitare sulla soglia di un varco, uno squarcio, una fenditura interiore, che viene a prendere per mano chi la vive introducendolo in quella solitudine da cui è possibile ri-contattare la parte più autentica e sepolta di sé: “La solitudine mi conduceva in quel silenzio che faceva parlare il fondo. Si trattava di un nascondimento dal fuori per rientrare dentro, in ascolto di una voce intima, accettando di stare lì dentro, non fuori” (A. Lumini, Voce del silenzio e Pustinia).
Esigenza profonda e irrinunciabile, perché “se l’anima perde connessione con la sua luce interiore e si rivolge solo verso l’esterno, si ammala. L’anima non può identificarsi solo con l’esterno, ha bisogno di rimanere radicata nell’interno. Si sentirà sostenuta dal suo fondo anche quando dovrà restare nel buio” (ibidem). Solo da questo fondo si impara veramente ad ob-audire, a rimanere nell’ascolto umile del reale, solo da lì è possibile apprendere il magistero del silenzio che conduce al discernimento, per arrivare a vedere la verità di sé e delle cose. “Occorre coraggio per entrare in se stessi, per far emergere la propria verità, per compiere il viaggio più lungo: il viaggio interiore. Pensare, interrogarsi, riflettere, essere attenti e vigilanti, elaborare interiormente le esperienze, conoscere momenti di silenzio e solitudine…” (L. Manicardi, L’accompagnamento spirituale). Quale solitudine? “La grande solitudine interiore. Scendere nel proprio intimo e non incontrare per delle ore nessuno: ecco cosa bisogna fare. Essere soli come il bambino quando i grandi sono in faccende e non si occupano di lui” (R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta).
Mai, forse, come oggi, l’esperienza del rientro è una delle più urgenti e fruttuose: “Da ogni parte gli uomini si agitano e sono impazienti. Di fronte a questa generale urgenza gli attivisti predicano azioni energiche. Pensiamo sia ancora più pressante la necessità di sedersi, insieme se possibile, a lungo in silenzio. Se il mondo deve essere rinnovato dall’effusione dello Spirito, la sola cosa necessaria è fare silenzio e ascoltarsi” (J. P. Schnetzler, Meditazione e preghiera nel buddismo e nel cristianesimo). Esistenzialmente, per un ritorno al fare che scaturisca dall’essere, è necessario impostare scelte “in modo che non si lasci spazio all’attività frenetica, alla moda del momento; a vantaggio di una ricerca deliberata, come se si trattasse dell’ossigeno per respirare, di spazi di solitudine, di silenzio, di anonimato deliberato. La vita delle persone è come quella del seme: per salire verso l’alto e dare frutto, deve sprofondare nella terra” (Fr. C. Serna Gonzales, Monaci qui e ora). E lo sprofondamento avviene all’interno del proprio cuore di terra e di cielo, là dove l’uomo “è chiamato alla solitudine del suo interiore laboratorio” (G. M. Vannucci, La santità oggi): “se sappiamo costruirci interiormente una cella ben riservata, ritornandovi tanto spesso quanto è possibile, in nessun luogo del mondo può mancarci qualcosa” (E. Stein, Scientia Crucis). E’ la scoperta della Pustinia, del luogo segreto e nascosto che ognuno si porta dentro e di Colui che vi abita: “Pustinia – dal russo, deserto – designa un luogo tranquillo e solitario in cui si desidera entrare per trovare il Dio che abita in noi. Entrare nella Pustinia significa ascoltare Dio” (C. H. Doherty, Pustinia: le comunità del deserto oggi). Il principio di orientamento che ci dona il deserto è la P/parola, che finisce per nutrire tutte le altre parole: “Il silenzio è il tempo in cui si matura l’arte del parlare: la parola diventa di costruzione, dialogo disarmato, comunione e ascolto obbediente. Il silenzio impasta la parola nel cuore e nella mente” (B. Secondin) e dona un linguaggio nuovo, quasi artistico, a chi lo fa scaturire da dentro: “In me c’è un silenzio sempre più profondo. Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche che ci sono necessarie. E questa nuova forma d’espressione deve maturare nel silenzio” (E. Hillesum, Diario). E’ questa “esperienza di ascolto interiore che predispone l’ascolto degli uomini” (A. Lumini, Voce del silenzio e Pustinia) a far sì che “la parte più essenziale e profonda di me ascolti la parte più essenziale e profonda dell’altro” (E. Hillesum, Diario).
In questo modo il silenzio, che è funzionale alla parola, educa alla giustizia. Quale giustizia? La giustizia che supera quella di scribi e farisei: “L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini… Ma non basta disseppellirti dai cuori altrui. Bisogna aprirti la via, e per fare questo bisogna essere un gran conoscitore dell’animo umano, un esperto psicologo. A volte le persone sono per me case con la porta aperta. Io entro e giro per corridoi e stanze, ogni casa è arredata in modo un po’ diverso, ma in fondo è uguale alle altre; di ognuna si dovrebbe fare una dimora consacrata a te, mio Dio. Io mi metto in cammino e cerco un tetto per te” (ibidem).
In fondo anche i tempi attuali non sono meno difficili: sappiamo che una complessità sempre crescente, una precarietà diffusa, il tramonto di tradizioni, istituzioni e ideologie, una marcata mancanza di riferimenti, hanno generato una crisi globale a cui non sappiamo ancora cosa rispondere, né quale “nuovo” progettare. L’unico dato sicuro è che il nome stesso della nostra epoca post-moderna – come d’altronde la sua identità – designa un’insita incertezza e una mancanza di auto-definizione: qualcosa che viene dopo il “moderno”, ma non si dice di più.
“Eppure io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire” (F. Fellini, La voce della luna.).
Stefano Andreoli - diariodelsottosuolo@gmail.com