“Nemesi amica” Ovvero: la pazzia nell’ordinarietà della vita quotidiana … – E se fossero tutti simboli?
Il Commendatore Mino Raccuglia si accingeva ad affrontare la sua giornata. Scrupoloso e impeccabile, il suo aspetto era curato quanto la sua coscienza professionale.
Funzionario di Stato, inappuntabile e incorruttibile, si apprestò a occupare la poltrona della sua scrivania con la stessa determinazione che una volta animò Orlando nella pugna a Roncisvalle.
Non era però minimamente preparato, nonostante l’ampia esperienza burocratica, ad affrontare l’impatto del primo fascicolo che gli fu sottoposto per la sua vidimazione.
Si trattava di apporre il suggello della sua preziosa approvazione per l’abbattimento del bosco del Chiesone.
Un bosco? Cosa volete che sia per un Commendatore? Che cosa mai doveva essere per un inveterato pubblico ufficiale come lui, rotto a tutte le tempestose navigazioni nei cavilli burocratici più intricati, nei risvolti più insidiosi delle pratiche ministeriali, nelle più discusse applicazioni di leggi e regolamenti?
Raccuglia Mino, però, di fronte a questa sparuta minaccia, sembrò sbiancare, raggrinzire tutto, raccogliersi in se stesso, rimpicciolire persino, come se avesse dovuto affrontare il drago che San Giorgio, fortunatamente, aveva già provveduto a togliere di mezzo, e che mai avrebbe dato il benché minimo grattacapo a nessun ministero o amministrazione pubblica.
Il fatto era che al Chiesone lui c’era cresciuto; e in quel bosco erano risuonate le sue grida di giubilo a respingere vittorioso i vigorosi assalti di altri ragazzini come lui al fortilizio da lui edificato fra i rami dei pini; e si dà pure il caso che, qualche annetto più tardi, avesse fatto degli aghi di quel pino, distesi a terra ad accogliere con complicità il suo primo amplesso, un giaciglio di delizie che lo avevano strappato definitivamente all’infanzia per consegnarlo alla vita adulta. Ma non sono cose queste, che si dovrebbero risapere, che non dovrebbero affidate alla voce, pettegola e irrispettosa, che non dovrebbero incrinare, con quel loro alito di leggerezza, di fanciullesca insulsaggine, l’immagine pubblica di un integerrimo e irreprensibile funzionario statale, ben al di sopra di queste frivole e triviali quotidianità.
Tutte voci, però che ora lo bombardano, che si insinuano maligne nelle pieghe della sua ben studiata professionalità, che sferrano all’impazzata colpi nelle maglie più deboli della sua armatura.
“Commendatore? Si sente bene?” Gli fa il Guidotti, il segretario, fissandolo preoccupato al di sopra di quegli occhialini spessi come fondi di bottiglia mentre lo vede impallidire, farsi cadaverico…per poi smarrire, per un lunghissimo istante, lo sguardo verso ignoti orizzonti racchiusi da uno scrigno invisibile al di là delle grigie pareti, dietro il ritratto del presidente della Repubblica.
“Sì…sì…Guidotti…vada pure” gli fa lui dopo aver boccheggiato inutilmente per qualche istante.
“Sì…ma la firma, Commendatore…sa , è urgente…purtroppo i termini per la concessione stanno per scadere…è stata la svista del Costantini, dell’ufficio concessioni demaniali…e adesso il tempo stringe. Si figuri che c’è di là il Cavalier Muravera…sa, quello delle costruzioni…sì, si figuri che è venuto fino qua ad aspettare la sua firma per poter procedere immediatamente….”
“Sì, sì, lo so, Guidotti…ma devo esaminare con cura il fascicolo, che diamine! Come se fosse una cosa da niente tirar giù un bosco!”
Il Guidotti rimase a bocca aperta, come quegli enormi pescispada che si vedono sulle bancarelle del mercato ittico. Era anche più o meno delle stesse dimensioni. Non una cosa …da niente? Quanti boschi erano già caduti sotto i colpi sferrati dal Commendator Raccuglia a suon di carteggi più affilati di cento motoseghe?
Prima che potesse replicare, Raccuglia gli fa:
“Su, vada, Guidotti, vada…e gli dica a quello là, quel Muravera, quel…che dovrà aspettare. Tutto qua.”
Ancora sotto shock il Guidotti si accinse all’ardua impresa di informare l’importante costruttore dei cambiamenti di piani. Tremava al pensiero.
Mentre con mano tremante Mino stampigliava un autoritario “CONCESSIONE NEGATA” sull’incartamento, si rendeva conto di star firmando la sua condanna a morte; quella professionale, della sua tanto accuratamente architettata e ben congegnata carriera, illuminata da promozioni e avanzamenti, punteggiata da encomi solenni e pacche sulle spalle, strette di mano ufficiali e non, brindisi e discorsoni e discorsetti.
Si slacciò il colletto, si allentò la cravatta, si sfilò la giacca e se l’appese a una spalla.
Uscì davanti allo sguardo stralunato del segretario per andare a combattere contro i mulini a vento nel bosco del Chiesone.
Il sole, fuori dall’ufficio, era così luminoso che lo abbagliò.
Simone Sutra – itdavol@tin.it