“Per trenta denari vendettero persino Gesù… figuratevi il pianeta Terra…” – Discussioni filo-economiche di Copenhagen e dintorni
“Copenhagen offre in sacrificio la Terra al Dio Quattrino…”
E’ tutta questione di soldi. Al di là degli aspetti folcloristici, delle dichiarazioni di principio, delle testimonianze di amore per il pianeta e il suo futuro, alla Conferenza sul clima di Copenhagen si discute di soldi. Con buona pace dei volonterosi e queruli negazionisti, i mutamenti climatici ci sono e possono essere rallentati con interventi tecnologici, ma soprattutto con azioni di carattere economico, giuridico e quindi politico da parte di tutti i paesi della Terra. Gli imputati sono la crescente immissione di anidride carbonica e di altri “gas serra” nell’atmosfera, in seguito all’uso dei combustibili fossili, alla produzione di cemento e di altre materie industriali;la modificazione della superficie del suolo in seguito all’espansione delle città e alle modifiche della tecniche agricole e della zootecnia; la distruzione delle foreste, per cui gli alberi tagliati non assorbono più anidride carbonica dall’atmosfera e anzi immettono anidride carbonica durante la loro decomposizione.
Le azioni che alterano il clima non sono compiute, in generale, per cattiveria, ma per “lodevoli”, si fa per dire, fini economici. I prodotti petroliferi sono bruciati per far muovere le automobili e far viaggiare merci e persone e per far funzionare le fabbriche e scaldare le case. Il carbone viene bruciato per produrre l’elettricità che è una “cosa buona” perché permette di illuminare le case e di far funzionare lavatrici, frigoriferi, computers, telefonini e innumerevoli altri aggeggi. Le foreste vengono tagliate non per malvagità verso il verde, ma per vendere il legno e perché il terreno sgombrato dagli alberi può essere coltivato per ottenere piante alimentari o industriali o anche per estrarre i minerali dal sottosuolo.
Il rovescio della medaglia sta nel fatto che i mutamenti climatici si traducono in costi monetari per tutti i paesi: l’aumento della siccità comporta la perdita di produzione agricola e l’aumento del prezzo degli alimenti; le piogge intense spazzano via il terreno e provocano frane e allagano campi e città distruggendo ricchezza e beni materiali (e vite umane, ma quelle non entrano nei conti economici); l’aumento del livello degli oceani provoca l’allagamento di molte zone costiere. D’altra parte qualsiasi azione per diminuire le cause dei mutamenti climatici costa dei soldi. Se, infatti, tutti decidessero di diminuire le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera dovrebbero diminuire l’uso del carbone, del petrolio, del gas naturale e tutte le merci e i servizi dipendenti da queste fonti di energia costerebbero di più. E costerebbero di più i minerali, il legname, la carta e i prodotti agricoli se fosse vietato tagliare le foreste. E costerebbero di più le merci e i servizi necessari per le classi povere e i paesi poveri che diventerebbero così più poveri e si arrabbierebbero ancora di più.
Per ristabilire una qualche forma di giustizia, agli inquinatori dovrebbe essere chiesto di pagare dei soldi, come imposte sul clima, per compensare in qualche modo chi rinuncia ad una parte del proprio sviluppo economico per evitare ad altri i costi conseguenti un maggiore aumento dei mutamenti climatici. Chi immette una tonnellata di anidride carbonica nell’atmosfera deve dare qualche soldo per risarcire del mancato guadagno chi rinuncia a tagliare alberi capaci di togliere quella stessa quantità di anidride carbonica dall’atmosfera, o per risarcire i maggiori costi di chi mette sul suo camino un filtro che evita l’immissione di una tonnellata di anidride carbonica nell’atmosfera. Al centro delle discussioni di Copenhagen c’è quanto costa questo commercio delle indulgenze, per cui chi inquina può, con qualche soldo, continuare ad inquinare alla faccia dell’ecologia.
D’altra parte l’inquinatore che deve pagare qualche soldo per ogni tonnellata di anidride carbonica che immette nell’atmosfera deve far aumentare il prezzo delle sue merci, siano scarpe, automobili, frigoriferi, elettricità, e quindi tutto ricade sul consumatore finale e maggiormente sulle classi povere e sui paesi poveri. Ci guadagnano soltanto le grandi società finanziarie e di assicurazioni che maneggiano il denaro delle imposte sul clima speculando sul destino dell’umanità; una volta il capitalismo produceva denaro a mezzo di merci; adesso si è raffinato e produce denaro a mezzo dell’ecologia. Se non si mette questo in discussione — ma non lo si sta certo facendo a Copenhagen — andremo a finire, un decennio dopo l’altro, tutti sott’acqua o a secco.
Giorgio Nebbia