In attesa di Copenhagen: avanti con zootecnia, taglio di foreste, anidride carbonica da carbone petrolio gas, avvelenamento delle acque, depauperazione delle risorse, perdita della qualità della vita… e tutto questo perché? Solo per il “benessere”..
23 settembre 2009 - I potenti della terra sono riuniti a New York per decidere che cosa fare, fra qualche settimana, a Copenhagen, per rallentare i mutamenti climatici.
Lì si confronteranno i grandi inquinatori dell’atmosfera e i piccoli stati minacciati dalle tempeste tropicali, i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Tutti gli stati della Terra, a proposito dei mutamenti climatici, hanno interessi contrastanti. L’imputato nascosto è rappresentato dall’anidride carbonica e dai gas che vengono emessi dalle combustioni di carbone, petrolio e gas naturale, da varie attività industriali e anche dalla zootecnia.
Poi c’è un altro imputato rappresentato dalla distruzione delle foreste; gli alberi, prelevando continuamente l’anidride carbonica dall’atmosfera per la propria crescita, compensano, in parte, le immissioni industriali dello stesso gas; quando una foresta viene tagliata, cessa la funzione “depuratrice” degli alberi e anzi il carbonio presente negli alberi tagliati si libera nell’atmosfera come anidride carbonica contribuendo anche lui ai mutamenti climatici: un doppio danno. L’insieme di queste azioni comporta un lento irreversibile aumento della temperatura “media” terrestre e provoca quindi dei cambiamenti nel clima dei singoli paesi e dell’intero pianeta.
Ma i governanti si riuniscono per discutere non di ecologia ma di soldi. Le azioni che alterano il clima non sono compiute, in generale, per cattiveria, ma per “lodevoli”, si fa per dire, fini economici. I prodotti petroliferi sono bruciati per far muovere le automobili e assicurare la mobilità di merci e persone e per far funzionare le fabbriche e scaldare le case. Il carbone viene bruciato per produrre l’elettricità che è una “cosa buona” perché permette di illuminare le case e di far funzionare lavatrici, frigoriferi, computers, telefonini e innumerevoli altri aggeggi. Le foreste vengono tagliate non per malvagità verso il verde, ma per vendere il legno e perché il terreno sgombrato dagli alberi può essere coltivato per ottenere piante alimentari o industriali o per estrarre i minerali dal sottosuolo.
Gli equilibri del pianeta vengono alterati, quindi, come conseguenza di operazioni considerate economicamente virtuose. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che i mutamenti climatici si traducono in costi monetari per tutti i paesi, per alcuni più per altri meno, per quelli che inquinano tanto e per quelli che inquinano poco. I mutamenti climatici comportano periodi di siccità che rendono meno produttive le terre agricole, che fanno diminuire la disponibilità di alimenti e fanno aumentare i prezzi delle merci essenziali, soprattutto per i paesi poveri. I mutamenti climatici comportano piogge intense che spazzano via il terreno e provocano frane, e che fanno aumentare bruscamente la portata dei fiumi che escono dagli argini e allagano campi e città distruggendo ricchezza.
I mutamenti climatici fanno fondere una parte dei ghiacciai permanenti e l’acqua liquida e dolce che così si forma va ad aggiungersi a quella salata degli oceani e il livello degli oceani si innalza minacciando l’allagamento di molte zone costiere, per ora le isole turistiche dei grandi oceani, ma domani anche operosi porti e grandi città sulle rive del mare. Gli stessi paesi che hanno tratto profitto inquinando l’atmosfera e tagliando le foreste sono costretti ad affrontare dei costi privati e pubblici, chi più chi meno, anzi spesso i costi sono maggiori per chi ha inquinato di meno e viceversa.
Da quando c’è stato il primo “trattato” sui mutamenti climatici, a Kyoto, nel 1997, tutti i paesi stanno facendo i conti e le previsioni dei costi e benefici futuri e ciascuno crede che i costi da affrontare oggi per cambiare tecnologie e consumi siano maggiori dei costi evitati domani. Di soldi, non di ecologia, stanno parlando i governanti della Terra oggi a New York. Se, infatti, tutti decidessero di diminuire le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, dovrebbero decidere di diminuire l’uso del carbone, del petrolio, del gas naturale e tutte le merci e i servizi dipendenti da queste fonti di energia costerebbero di più. E costerebbero di più se i paesi fossero costretti a filtrare i gas inquinanti dai camini e dalle ciminiere delle centrali termoelettriche e dei cementifici e costerebbero di più i minerali, il legname, la carta e i prodotti agricoli se fosse vietato tagliare le foreste tropicali. E costerebbero di più le merci e i servizi necessari per le classi povere e i paesi poveri che diventerebbero così più poveri e si arrabbierebbero ancora di più.
Gli stessi effetti si avrebbero se si lasciasse andare avanti senza controllo il riscaldamento planetario. Qualche soluzione può essere cercata nella tecnologia (fonti energetiche alternative, macchinari a minor consumo energetico, filtri e depuratori, eccetera), ma l’unica soluzione può essere cercata nella giustizia. I paesi che traggono vantaggio dall’inquinamento responsabile dei mutamenti climatici dovrebbero essere disposti a risarcire i paesi danneggiati da tali mutamenti, un vecchio problema trattato già nel 1912 dall’economista inglese Cecil Pigou (1877-1959) nel libro “L’economia del benessere”
Ma come ? Non si può pensare che ogni americano o europeo dia, per ogni chilowattora di elettricità inquinante che consuma, un soldo a un cittadino africano o asiatico; occorre un intervento degli stati tutti insieme, inquinatori e inquinati, anche se tutti disuniti nei rispettivi egoismi. Di questo si parla oggi e si parlerà fra dieci settimane a Copenhagen: del destino di ciascuno di noi: di quanto costeranno il cemento o le patate o la carta; di quanto i paesi ricchi saranno disposti a consumare e usare “di meno” le merci e i servizi che provocano i mutamenti climatici, saranno disposti ad aiutare i paesi poveri ad uscire dalla loro miseria senza distruggere il pianeta — se vogliamo evitare di finire, un decennio dopo l’altro, sott’acqua o a secco.
Giorgio Nebbia – nebbia@quipo.it
Notizie di riferimento:
1. Home – COP15 United Nations Climate Change Conference Copenhagen 2009
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