Calcata com’era… Una calcatese originaria racconta la magia di un tempo che fu, nel dramma della scissione dal luogo natio!
Quete righe che seguono sono i ricordi di Gabriella Coletta, una signora nata a Calcata, poi emigrata a Roma dove trascorse tutta la giovinezza e parte dell’età matura. Da alcuni anni Gabriella è tornata a vivere nel paese natio e su mia insistenza ha raccontato la sua esperienza della Calcata che fu, di quando bambina veniva a trovare i nonni ed a trascorrervi le vacanze, la ringrazio sentitamente per la condivisione. (P.D’A.)
Le vacanze estive, per me da bambina erano Calcata; di solito vi arrivavo di mattina, in giugno. Quello che mi colpiva era il silenzio; si sentiva soltanto il cinguettio dei passeri sui letti; il paese era completamente vuoto e nessun bambino per poter giocare: erano tutti in campagna per la mietitura. Di solito facevo una ricognizione per esplorare i posti dove avevo giocato l’anno precedente e poi aspettavo; aspettavo la sera seduta sullo scalino della casa infondo al vicolo e succedeva i miracolo; a gruppi la gente tornava dal lavoro, il paese si rianimava e cominciava a vivere. Le donne scendevano a prendere l’acqua alla fontana, accendevano il fuoco per preparare la cena; gli uomini sistemavano gli asini nella stalla e i bambini si riversavano nella piazza per giocare: per me cominciava la festa. Dopo cena gli uomini sedevano in piazza sui muretti e sulle scale della chiesa a parlare e le donne con i bambini si raccoglievano a gruppi nell’”uscio” ossia negli slarghi dei vicoli, sotto casa; filavano la canapa con le rocche e i fusi, facevano la calza o semplicemente si riposavano; c’era quasi sempre una vecchia che raccoglieva intorno a se i bambini e raccontava favole interminabili che procedevano per due o tre sere; oppure spesso ci scatenavamo per correre o giocare a “tana”.
Quello che mi colpisce riflettendo su quel periodo è che la gente non crollava mai per la stanchezza dopo una giornata di duro lavoro, al rientro, dovevano lavorare ancora, in casa, trovando anche il tempo per trascorrere insieme un’ora o due prima di andare a letto. Poi, negli anni `60, si cominciò a parlare di crollo imminente; dovunque andavo la gente parlava di questo crollo e il paese che aveva retto a mille intemperie sembrava dovesse venir giù da un momento all’altro.
Le prime case nuove che vennero costruite furono quelle popolari di via Cadorna (un grosso parallelepipedo squallido) e le famiglie a cui furono assegnate vi si trasferirono; continuavano però a scendere al paese per la spesa e per stare in compagnia. Altre case vennero costruite e il paese cominciò a dividersi: chi era andato a vivere al paese nuovo ancora scendeva quasi obbedendo a un richiamo silenzioso. Quando anche l’ultima famiglia si trasferì, la vecchia Calcata sarebbe dovuta rimanere spopolata, ma non fu così: i vecchi non se ne vollero andare; si rifiutavano di lasciare le loro case, i muretti della piazza, le scale della chiesa e i vicoli dove si era svolta la loro vita e la vita dei loro padri e dove avevano i ricordi di gioventù.
Mia nonna fu portata via quasi a forza dopo la morte di mio nonno, ma per questa violenza arrivò a maledire mia madre e a rimpiangere fino alla morte la sua casa: «ti sei costruita il castello; io devo vivere nel castello…» continuava a ripetere e piangeva. I figli continuavano a scendere, per curare i genitori, ma quando una anziana donna fu trovata morta da un paio di giorni anche i più caparbi cominciarono a cedere e il paese rimase abbandonato. Quando, a volte, scendevo trovavo lo stesso silenzio dei giorni da bambina, mi sedevo sullo scalino, fumavo una sigaretta e risalivo sconsolata per quel bene perduto; in tanti lo rimpiangono: loro che hanno vissuto al vecchio paese ricordano la solidarietà che c’era fra tutti, la comunicativa, il mutuo soccorso, la semplicità. Soltanto í giovani sono “liberi” da questo legame: nei loro ricordi la vecchia Calcata non c’è…
Gabriella Coletta