Santità nella spiritualità laica – Postfazione sulle notizie sin’ora trasmesse… e sulla reale condizione dello scrivente, con risposta di Ramana Maharshi

Scrivevo ad un’amica spiegandole: “..lavoro per un mezzo sderenato che si chiama Paolo D’Arpini, lo conosci?”.

In verità identificarsi con uno specifico nome forma non corrisponde assolutamente al vero ed inoltre se ci si identifica con la “persona” non si può fare a meno di assumerne i pregi ed i difetti, di accogliere le sue sfumature e macchie, ma siamo noi Arlecchino e Pulcinella? Per questo dicevo che “io” (in quanto coscienza) lavoro per quel personaggio Paolo D’Arpini, il quale solo attraverso la mia osservazione consapevole può manifestarsi e compiere le nefandezze a cui è avvezzo. Allo stesso tempo gli voglio bene come voglio bene a chiunque mi si presenti davanti, che entra nella mia sfera cosciente. Questa è santità?

Ho scoperto, rileggendo diverse storie su questo sito, che sovente, soprattutto in questa rubrica, vengono descritti momenti di trascendenza e flash di realizzazione.

L’esperienza dello stato ultimo, della coscienza libera da identificazione, è esposta in varie scuole spirituali e definita come: Satori, Spirito Santo, Samadhi, Shaktipat, etc.

Di solito si intende che questa “esperienza” sia conseguente ad una particolare condizione di apertura in cui la “grazia” del Sé può manifestarsi ed impartire la conoscenza di quel che sempre siamo stati e sempre saremo. Purtroppo dovuto all’accumulo di tendenze mentali “vasana” non sempre l’esperienza non-duale si stabilizza in permanente realizzazione. Il risveglio quindi non corrisponde alla realizzazione (oppure solo in rari casi di piena maturità spirituale). E qui ci troviamo di fronte ad un paradosso, da un lato c’è la consapevolezza inequivocabile dello stato ultimo che non può mai più essere cancellata, dall’altro un oscuramento parziale di tale verità in seguito all’attività residua delle vasana che continuano ad operare nella mente del “cercatore”…

A questo punto trovo necessario riportare una risposta data da Ramana Maharshi su questo argomento.

D. “Può la conoscenza essere persa una volta che è stata ottenuta?”

R. “La conoscenza una volta rivelata prende tempo per stabilizzarsi. Il Sé è certamente all’interno dell’esperienza diretta di ognuno, ma non come uno può immaginare, è semplicemente quello che è. Questa “esperienza” è chiamata samadhi. Ma dovuto alla fluttuazione delle vasana, la conoscenza richiede pratica per stabilirsi perpetuamente. La conoscenza impermanente non può impedire la rinascita. Quindi il lavoro del cercatore consiste nell’annichilazione delle vasana. E’ vero che in prossimità di un santo realizzato le vasana cessano di essere attive, la mente diventa quieta e sopravviene il samadhi. In questo modo il cercatore ottiene una corretta esperienza alla presenza del maestro. Per mantenere stabilmente questa esperienza un ulteriore sforzo è necessario. Infine egli conoscerà la sua vera natura anche nel mezzo della vita di tutti i giorni. C’è uno stato che sta oltre il nostro sforzo o la mancanza di sforzo ma finché esso non viene realizzato lo sforzo è necessario. Ma una volta assaggiata la “gioia del Sé” il cercatore non potrà fare a meno di rivolgersi a questa ripetutamente cercando di riconquistarla. Una volta sperimentata la gioia della pace nessuno vorrà indirizzarsi verso qualche altra ricerca” (Talks).

E con questa promessa-condanna vi risaluto amichevolmente.

Paolo D’Arpini

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