Ti vedo….Lettera sulla Georgia

Caro Paolo, purtroppo non sono riuscita a “pescare”, sul tuo bellissimo sito, la lettera sulla “casa” e quindi,non ho eseguito il famoso login con il conseguente mio commento…sorry! E’ da stamane, invece, che cerco notizie sul Caucaso ed in particolare sulla Georgia…così, mi sono ricordata di un “contatto” via mail: un ragazzo di Firenze (Francesco) che ha svolto una buona tesi sulla Georgia, nonchè un articolo su un suo, appunto viaggio, in questo luogo. La mia ricerca nasce dopo la lettura del tuo articolo: operando un rapido sondaggio tra le pareti domestiche, mi sono resa conto che, principale movente che allontana tutti noi da tanti argomenti, è la non conoscenza, “l’ignoranza”……mi possono dire quello che vogliono sul Caucaso, sulla Georgia, su Putin..ma di che si parla?? Dove si trova la Georgia?? E tanto altro..quindi ho cercato qualcosa di interessante in rete..ma la “ricerca” continua…da qualche parte, credo di aver conservato delle riviste di “vita scolastica” con fiabe del CAUCASO….intanto ti invio l’articolo di Francesco….che ne pensi?? Un caro abbraccio…spero di “non lasciar cadere invano” il tuo desiderio di far conoscere la storia e l’evoluzione di questi luoghi! A presto, Francesca  Impressioni di viaggio: la GEORGIA                 

Arriviamo a Tbilisi a notte fonda. Ad attenderci, all’aeroporto, troviamo l’amico Zurab Zurashvili, una giovane promessa della società georgiana. Ci porta all’albergo e ci diamo appuntamento per l’indomani alle cinque del pomeriggio. La mattina appena alzati non stiamo nella pelle per la curiosità di vedere la città, in quattro e quattr’otto montiamo su un taxi scalcinato e ci immergiamo nel bailamme. Tbilisi, la più orientale delle capitali cristiane e la più bella città del Caucaso, prende il suo nome dall’acqua (in georgiano tbilisi significa letteralmente “sorgente termale”). La sua posizione è ottimale: si schiude lentamente, srotolandosi a forma di esse lungo il fiume Mtkvari, accucciata tra la catena montuosa del Sololaki a sud, il monte Makhata a est e le spoglie colline di Trialeti a ovest.

Sono le due del pomeriggio quando attraversiamo la direttrice principale. Ai lati delle strade è tutto un mercato. Dai gelati alle focacce calde, dai semini ai cocomeri, tutti vendono tutto: sembra un grande bazar a cielo aperto. I tiblisedi hanno fatto del commercio l’anima della città. La gente guida da pazzi: superarsi e bucare i semafori è la norma. Le vie più grandi pullulano di gente ben vestita, di negozi, caffè moderni e ristoranti, ma è sufficiente gettare uno sguardo sulle stradine laterali che la scenografia cambia: povertà, miseria, catapecchie che stanno in piedi per miracolo e bambini che scorrazzano scalzi. Passato il Mtkvari ci troviamo catapultati nel mezzo della vecchia Tbilisi. Quel che si domina dall’alto della fortezza di Narikala è di una bellezza struggente. Il cuore pulsante della città è un grumo immenso di casette di due-tre piani dai colori variopinti con i balconi intarsiati in legno e immancabili pergole di vite in quanto il vino è il simbolo e l’identità profonda del Paese. Si respira l’aria del Sudamerica. Sembra di essere a L’Avana.

Attaccata alla parte più vecchia si stende la città ottocentesca e novecentesca, con splendidi palazzi color avorio e una serie interminabile di chiese, statue, colonne e ornamenti ora arabeggianti, ora baroccheggianti. Ci infiliamo in un bar di Via Rustaveli, la strada principale di Tbilisi che ospita uno dopo l’altro musei antichi e di arte moderna, il Parlamento, i teatri dell’opera e alcuni cinema. Per inciso, Rustaveli è stato il più grande poeta georgiano di tutti i tempi e contribuì all’unificazione linguistica del paese, una sorta di Dante caucasico insomma. Il bar non ha nome. Una decina di tavolini di plastica occupano il marciapiede, e sul bancone sono messe in bella vista le specialità culinarie georgiane dalla famosa focaccia con il formaggio a panini piccantissimi con la carne. Non faccio in tempo ad alzarmi per andare a prendere da mangiare per me e la mia compagna di viaggio, che sono assalito bonariamente da un giovane georgiano. “Ti posso aiutare?”

Parla un ottimo inglese, mi chiede da dove vengo e cosa voglio ordinare, mi paga tutto lui, ci offre due birre e quando vede che ho finito le sigarette mi regala un pacchetto nuovo fiammante. Rimango sbalordito. Quando sa che siamo italiani gli si illumina il viso. Ha ventun’anni, si chiama David Sdneladze, come David il Costruttore, il grande re georgiano che nel dodicesimo secolo riunificò il Paese, “Italiani?! Qui siamo tutti pazzi per voi, ho visto decine di volte Il Padrino, tutti i film sulla mafia, e quelli di Adriano Celentano. La mafia italiana è bella. Anche qui abbiamo la nostra mafia e tutti i georgiani la amano.”

E’ l’inizio di una allegra chiacchierata che prosegue, tra alti e bassi, per tutto il pomeriggio. Quando gli spiego che la mafia italiana è una realtà tragica che opprime tutto il nostro Mezzogiorno, una realtà di terrore e di migliaia di innocenti massacrati, David rimane un po’ scosso. Ammette che la mafia italiana è troppo violenta e non ha nulla a che fare con il folklore. Gli chiedo che lavoro faccia e mi spiega che insieme ad un’altra persona, un omone seduto in un altro tavolo che saluto con la mano, deve controllare questo bar e il locale accanto. Non capisco bene se sia un mafiosotto che s’intasca il pizzo in via Rustaveli, un mezzo poliziotto o solamente un giovanotto che per passare il sabato pomeriggio racconta delle storielle ad un occidentale. Ci offre ancora da mangiare, ci porta nelle cantine ad assaggiare i vini più pregiati e s’indigna con l’amico Zurab che ci ha lasciato soli per mezza giornata.

Alle cinque Zurab ci aspetta davanti al Parlamento. David si aggrega e saliamo tutti insieme su un taxi antidiluviano direzione città vecchia. La parte antica è circondata da splendide mura. Sembra un mondo a sé. Le casine sono tutte basse, con i balconi colorati e panni stesi dovunque. Non ci sono auto in giro. La mia compagna di viaggio la descrive come la Macondo in “Cent’anni di solitudine” di Marquez, cui io aggiungo immediatamente un che di Napoli. Un paio di stradine hanno le case completamente ristrutturate. E’ il polo di tutti gli artisti della città, una specie di Village newyorkese nel Caucaso, ci spiegano. Il resto del quartiere è un pò decadente. Dai portoni più poveri spuntano facce da favelas e vecchine tutte vestite di nero. Sono gli armeni, scappati da una delle tante guerre che hanno insanguinato questa parte di mondo, questo crocevia così complesso popolato da decine di etnie diverse. Arrancando arriviamo alla Fortezza di Narikali, un complesso di mura e torri abbarbicato sul colle più alto della città. Anche da qui si domina tutto dall’alto. A sud-est spunta una fila interminabile di luoghi religiosi. In poche centinaia di metri si allineano le cupole morbide del bagno turco e della moschea islamica, i profili severi della sinagoga e di quattro cattedrali – l’ortodossa georgiana, l’ortodossa russa, la cattolica romana e l’armena – a rivelare l’abitudine millenaria alla convivenza di popolazioni diverse, stanziali o di passo.

Sul far della sera riscendiamo nella città bassa, al tramonto ci mettiamo su una rupe a ridosso del Mtkvari. Circondati da pini e cipressi, avvolti nel canto dei grilli, sembra quasi di essere in una pineta della Maremma. Sulla collina di fronte troneggia un’enorme statua di donna: è la Madre Georgia. Questa donnona, quasi felliniana, che tiene con una mano una coppa di vino e con l’altra la spada è il simbolo della Nazione. “Per noi la donna ha un valore speciale, è al centro della vita”, si accalora David. “Siamo un popolo di guerrieri, come i nostri fratelli ceceni. Combattiamo da secoli, ma solo per la nostra libertà. Mai, nemmeno un giorno, abbiamo combattuto per conquistare terre non georgiane. Il vino è per gli amici – per noi l’ospitalità è sacra – e la spada è per i nemici.” Per rimarcare meglio le sue teorie, David tira fuori un coltello a serramanico. “Siamo un popolo di montanari che mai si è fatto sottomettere

Zurab, nostro amabile cicerone, lo guarda storto. “Non ho mai portato un coltello in tasca in vita mia, non vedo a cosa possa servirmi”. Zurab, giovane laureato all’Università di Tbilisi con un ruolo importante al ministero degli esteri, rappresenta il meglio della nuova Georgia. Ha subito sulla propria pelle la violenza che ancora si annida in alcuni strati della società georgiana. Il suo migliore amico è stato ucciso l’anno scorso a Tbilisi fuori da un ristorante, solo per aver discusso con personaggi con i quali evidentemente era meglio non avere a che fare. Si sa chi sono i colpevoli, ma sono ancora impuniti. Zurab sussurra che due di loro seggono addirittura sugli scranni parlamentari.

La Georgia è un paese a metà del guado, una transizione che ancora non è finita. Il 1991, l’anno dell’indipendenza dopo settant’anni di dominazione russa, poteva essere per i georgiani il principio di un periodo fecondo, invece segnò l’inizio di una rapida discesa agli inferi. Arrivò al potere una coalizione aspramente nazionalista con alla testa un personaggio controverso Zviad Gamsakurdija. Facendosi eleggere subito Presidente, Gamsakurdija in breve tempo esasperò le relazioni con le minoranze etniche, teorizzando con toni mistici un violento nazionalismo fondato sull’assioma la “Georgia ai georgiani”. In un paese dove quasi un cittadino su tre non è di etnia georgiana, guerre, morti, rancori, povertà e disperazione la fecero da padroni. Lo spirito georgiano dell’accoglienza, che nel periodo sovietico ne aveva fatto la meta turistica più ambita di tutta l’Unione, che aveva a Tbilisi un èlite politico-culturale avanzata, che esprimeva una pacifica convivenza tra popoli e religiosi differenti, nel biennio 1991-1993 venne completamente travolto e il Paese fu trascinato in un triste medioevo di guerre e rancori etnici (oltre diecimila morti in Abkhazia e nell’Ossetia meridionale), profughi, fame, povertà, disperazione. Alberghi bellissimi furono trasformati in case d’emergenza per i profughi, per i tre quarti dei cittadini in povertà e senza lavoro a causa del collasso totale dell’economia. L’arrivo di Eduard Shevarnadze, già ex ministro degli esteri di Mikhail Gorbaciov, segnò l’inizio di una lenta rinascita e la seconda metà degli anni novanta vide finalmente il silenzio delle armi, la nascita di un dialogo con le minoranze etniche e il rafforzarsi della democrazia nel paese.

Di sera, Tbilisi è ancora più bella con tutti i suoi gioielli illuminati e tutti i suoi giovani che riempiono le decine di locali notturni che negli ultimi tempi fanno a gara ad aprire. Nella notte sfavillano pure le luci dei Casinò (ben diciassette!), dei night-clubs dove i nuovi signorotti si divertono tra fiumi di alcool. Di domenica tutta la città sembra in festa: gli uomini sono tutti vestiti in nero, le donne tutte ingioiellate e improfumate. Sulla via Rustaveli decine di macchine passano strombazzando: sono i matrimoni, con le spose che sventolano i bouquets dai finestrini. All’ora di pranzo abbiamo appuntamento con l’Ambasciatore italiano in Georgia, Fabrizio Romano, una persona acuta e ironica.

“Tbilisi è spettacolare” afferma. “So che il governo georgiano ha richiesto all’Unesco di farla divenire Patrimonio dell’umanità. Il popolo georgiano ha una storia millenaria e sono sicuro che ha tutte le carte per farcela. A novembre ci saranno le elezioni parlamentari e tutto si dovrebbe svolgere nella più assoluta trasparenza. Sarebbe già un successo”. L’Ambasciatore ci racconta che a Tbilisi la vita culturale è fervente e il governo italiano ha un programma di collaborazione proprio in questo campo. Il mondo culturale georgiano ha il suo epicentro all’Università di Tbilisi, proprio lì c’è Zurab ad aspettarci. Il primo blocco universitario è un grande palazzo bianco e severo. Incontriamo i leader del movimento politico studentesco Tengo Dalalishvili e Dakar Berekashvili, due giovani molto colti che citano Pasolini e Visconti. Con il motto “It’s enough!” (Basta!), da sette mesi questi girotondini caucasici hanno creato un movimento di protesta contro il Presidente Shevarnadze che si è diffuso a macchia d’olio sulla scena politica del Paese.

“Il movimento Kmara”, racconta Bakar Berekashvili, “è nato il 14 aprile qui a Tbilisi. Kmara in georgiano significa ‘basta’. Abbiamo deciso di chiamarlo così perché riteniamo che la misura sia veramente colma. Il nostro movimento si vuole richiamare idealmente al movimento serbo ‘Otpor’ (’resistenza’) che si oppose con grande vigore a Milosevic nell’autunno del 1998 e dimostrò di essere efficace nel traghettare quel paese verso la democrazia. Kmara ha preso corpo ad aprile quando il partito del Presidente Shevarnadze, ‘Unione dei Cittadini della Georgia’, si è dissolto. Dalle sue ceneri sono nati cinque nuovi partiti, due di questi sono andati all’opposizione e gli altri tre – con i peggiori personaggi del Paese – sono rimasti fedeli al Presidente. Sotto la sua guida è stata creata una coalizione, ‘Alleanza per la Nuova Georgia’, che appare avida di potere e vogliosa di rimanere forzosamente al governo. Per questo abbiamo deciso di reagire. A novembre si terranno le nuove elezioni parlamentari e in vista di questo importante appuntamento Kmara si è dato due obbiettivi: combattere questo governo con mezzi pacifici, evitando che le elezioni d’autunno siano tenute in un clima d’illegalità, e proseguire la nostra azione di vigilanza democratica anche sui nuovi eletti: non vogliamo in alcun modo abbassare la guardia.”

Attraverso numerose dirette ‘Kmara’ è arrivato nelle case di tutti i georgiani: dalle coste del Mar Nero fino alle valli più impenetrabili dove le tradizioni sono dure a morire. L’effetto è stato dirompente, e anche adesso, nelle caldi pomeriggi estivi, quasi quotidianamente si vedono sfilare nella Capitale migliaia di manifestanti. In giro per Tbilisi sono visibili le tante scritte Kmara che chiedono al Presidente Shevarnadze di combattere con energia la corruzione, di rispettare lo stato di diritto, di combattere la povertà e di riformare lo scadente stato sociale. Una di queste campeggia ancora sul più grande palazzo della città: il grande edificio, color avorio, sede della Presidenza della Repubblica.

Da aprile ad oggi si sono succedute, solo a Tbilisi, quindici manifestazioni con un numero sempre crescente di partecipanti, nell’ordine di decine di migliaia di persone. In tutto il paese è dilagata la protesta contro Shevarndze. Il governo si sta rendendo conto dell’importanza raggiunta da questo movimento e in più occasioni ha cercato di impedire ai manifestanti di scendere in piazza, ma l’ambasciatore italiano si mostra fiducioso: “Il popolo georgiano ha una storia millenaria, sono sicuro che abbia tutte le carte per farcela. L’apertura da tre anni della nostra ambasciata e un corposo programma di collaborazione culturale dimostrano chiaramente la nostra volontà di non abbandonare questa nazione al suo destino. Le elezioni di novembre si dovrebbero svolgere nella più assoluta trasparenza e già questo sarebbe un grande successo.”

E proprio nell’Università viva e combattiva concludiamo il viaggio in questo lembo di mondo che secondo la leggenda Dio voleva riservare per sé, da sempre spazio di sogni e avventure di mercanti, appeso a metà tra Europa e Asia, tra Oriente e Occidente. Distrutta e ricostruita ben ventinove volte, punto di snodo dei traffici, lungo la storica ‘Via della Seta’, appesa tra Oriente ed Occidente, città che porta i segni di tutte le contraddizioni della lunga transizione georgiana, dalla bellezza struggente della parte vecchia, con il suo grumo di casette a due-tre piani dai colori variopinti, alla sterminata distesa di periferie desolate dove enormi palazzoni aspettano di essere finiti da chissà quanto tempo, Tbilisi è stata per noi una lunga, lunghissima emozione. 

 Francesco Trecci

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